Recensioni / Fantasmi del luogo

La figura di Alexander von Humboldt (1769-1859) è stata decisiva nel passaggio da una concezione «cosmologica» del mondo, ancora rinascimentale, a una modernamente «cartografica». Il fondatore della geografia moderna, insomma: che peraltro intitolò proprio Kosmos il suo Progetto di una descrizione fisica del mondo. Una descrizione che non prescindeva dall'esplorazione in prima persona affrontata in due grandi spedizioni, in Sud America dal 1799 al 1804 e in Asia centrale nel 1829.
«ln prima persona» sono sempre, altresì, i libri della nuova casa editrice che porta il suo nome, animata dall'editor Alberto Saibene e dalla fotografa Giovanna Silva e pubblicati in (graficamente scintillante) coedizione con Quodlibet. (Non è un caso che, trai succulenti progetti annunciati, vi sia la riedizione del libro-svolta dellantropologia moderna, L'Africa fantasma di Michel Leiris, monstre del 1934 tradotto cinquant'anni dopo da Rizzoli e oggi introvabile.) L'intento è quello di aprire uno spazio non solo editorialmente nuovo, ma di nuova concezione, per quella che si potrebbe definire una «letteratura di viaggio del terzo tipo»: che non si illuda cioè di restaurare il meraviglioso, l'esperienza diretta dei viaggi d'un tempo, ma che nemmeno si accontenti della malinconica conferma postmodernista di una condizione descritta già nel 1955 da Claude Lévi-Strauss, in Tristi tropici, come «fine dei viaggi» (Tutto è stato Già Visto, Tutto è stato Già Conosciuto, Nulla può intervenire a modificare - nel viaggiare - la nostra identità).
È significativo, intanto, che le «prime persone», nei libri Humboldt, siano (almeno) due. Il progetto prevede infatti che uno scrittore scelga un luogo da descrivere e porti con sé, a tal fine, anche un fotografo. I due testi, scritto e iconografico, procedono poi in parallelo: nella fattispecie, al récit del giovane Vincenzo Latronico (narratore fra i più interessanti della sua generazione, nato nel 1984) seguono trenta scatti a colori di Armin Linke (tedesco del 1966, nato a Milano, ora di nuovo a Berlino).
La «tratta» percorsa è la medesima, dalla «Svizzera d'Africa», Gibuti, ad Addis Abeba; ma si vede come il sistema delle aspettative, assai diverso nei due interpreti, non possa non orientare i rispettivi «testi» - al di là delle ovvie differenze di medium. Se Linke documenta la continuità che certi dispositivi di controllo e mediazione mostrano, nel Nord del mondo come nel supposto Altrove africano (ci si ricorda di un suo notevole lavoro precedente, Il corpo dello Stato, dedicato ai luoghi del potere a Roma, fra Parlamento e Vaticano, e accompagnato da un testo di Giorgio Agamben) - e dunque più che le foto en plein air a colpire sono gli intérieurs di uffici e luoghi di rappresentanza - Latronico insegue un fantasma biografico che non è solo una sua questione privata. Bensì una sineddoche della nostra memoria collettiva coi suoi offuscamenti e i suoi (troppo rari) soprassalti: dal passaggio «coloniale» in Etiopia la sua famiglia è stata infatti segnata in profondità (un nonno al seguito delle truppe imperialiste, una madre nata ad Addis Abeba) proprio come - anche se con troppa facilità ce lo si dimentica - la storia del nostro paese. ll fantasma coloniale - la vera e propria Africa fantasma che Latronico si porta dietro, filogenetica, nel sangue - ha un'allusiva traccia testuale: le pagine scritte sono infatti punteggiate, alla maniera di Sebald, da un'ulteriore serie di immagini (queste in bianco e nero) dovute alla presenza silenziosa (e sottaciuta) sulla scena, di un secondo fotografo. L'ombra che cammina accanto è, qui come sempre nei libri Humboldt, quella di Giovanna Silva.