Michail Saltykov-Šcedrin, l'autore di Fatti d'altri tempi nel
distretto di Pošechon'je, fu più o meno coevo di Dostoevskij.
Nacque da una famiglia di media nobiltà nel 1826. Quando a ventidue anni, influenzato dagli eventi rivoluzionari di Parigi,
pubblicò Un affare imbrogliato, Nicola I lo spedì in
provincia, a Vjatka, dove ricominciò la carriera amministrativa.
L'esilio durò otto anni, lo revocò Alessandro ll e nel 1857 Saltykov
pubblicò Cronache (o Schizzi o Bozzetti)
provinciali, il libro che lo impose all'attenzione e che
suscitò l'interesse di Nikolaj Cernyševskij. La collaborazione tra i
due scrittori alla rivista «Sovremmenik» costituisce uno sviluppo
del pensiero liberale, com'era interpretato dal duo
Belinskii-Turgenev: per lo stesso Lenin siamo a un passo dall'idea
democratica. Non così per Kropotkin, per il quale la satira di
Saltykov accostandosi all'uomo medio «rimane nascosta dietro una
massa di episodi comici e di espressioni esotiche».
Ma Kropotkin sbagliava. Saltykov comincia da Aksakov, dalla sua Cronaca
di famiglia; ha punti di contatto con Tugenev (ma i loro mondi
sono diversi, l'attenzione di Saltykov è quasi per intero
concentrata su quello che si sarebbe chiamato proletariato, e che
per lui era o era stata servitù della gleba), e anche con Gogol'
(nelle sue punte satiriche). Ma specie nelle opere maggiori, I
signori Golovliòv e Pošechon'je, è un caso a sé per
obiettività dello sguardo; per durezza (tutta implicita) del
giudizio; per nichilismo (pari a quello dei grandi del secolo
successivo, secondo Anthony Burgess la sua opera prelude a Belyj e
al Nabokov di Ada); per il sottotesto di «pietas» che il suo
nichilismo mai nasconde fino in fondo.
L'analisi che ne fece Cernyševskij è esemplare. Saltykov in quanto
funzionario statale non è un democratico. Se l'idea dominante è che
la concussione è una transazione, condannare è difficile; né Amleto
è Amleto solo per il suo carattere, lo è per il mondo in cui vive.
Ma a questa altezza, contraddicendo l'uomo, entra in scena lo
scrittore che assunse il nome di Šcedrin, un vero scrittore
democratico.
Saltykov è il più nero degli umoristi, diceva Cernyševskij nel 1857;
ma per lui i russi non sono mostri, bensì uomini come gli altri,
quegli uomini «comuni» che Kropotkin pensava l'autore di Golovljòv
e di Pošechon'je non sapesse vedere. Quello che a me più
preme è capire cosa fa di Saltykov, al di là delle idee, uno
scrittore non grande, ma grandissimo e anche, aggiungo, molto bello
da leggere, trascinante, sempre toccante. I suoi registri sono tre.
Comico-umoristico, d'un umorismo che procede raso terra. Satirico,
d'una satira che può essere circoscritta al mero ritratto di un
personaggio: in Pošechon'je così è descritto il maresciallo
Strúnnikov: egli «mangia una cotoletta dietro l'altra. Strappa la
carne coi denti, e masticando guarda lontano, come sperduto nei
pensieri. Dal piacere il suo viso prende un'espressione quasi
sofferente». Il terzo registro è elegiaco: i ritratti più lancinanti
sono quelli dei servi, della loro quasi sempre breve e stremante
vita, e della loro morte. Annuška in punto di morte dirà: «Sono nata
serva (...). E adesso se l'Altissimo mi giudica degna di morire,
resterò per i secoli dei secoli... serva del Signore!». Mavruša, che
diventa serva sposandosi, non ce la fa e s'impicca; l'impenetrabile
Konòn che, agonizzante, alla domanda «E allora, soffre?» risponde
solo «Si sa... è la morte»; il sarto Serëka che diventa sarto per
«smorzare ogni sensibilità, e farci il callo» (alla normalità delle
angherie); Matrënka che rimasta incinta fuori del matrimonio si
lascia morire assiderata; Van'ka-Caino che al narratore riappare
anni dopo, più scheletrico che mai per dirgli, semplicemente, senza
dirlo, «è ora di morire».
Non mi soffermerò sui due ritratti maggiori, che si suppongono
autobiografici, quello della tirannica eppure «buona» padrona e di
tutti «mamma» Anna Pàvlovna, e quella dei padre «bigotto e
pusilianime» (Gigliola Venturi) Vasilij Porfiryc. Né sui ritratti un
po' comici, le «ziette-sorelline» e, stupendo, quello della «zia
golosetta». Voglio ricordare invece il matrimonio tra il nobile
d'antico stampo (proprio come in Gogol') Burmakin e la viziatissima
Mílocka, che appena arriva a Mosca mostra di che pasta è fatta, così
ricordando, si può supporre, lo sciagurato matrimonio di Saltykov,
che aveva trent'anni, con Elizaveta Apollònovna, di quindici anni
più giovane (una donna che, annoterà il marito, «in quanto a ideali
non è esigente» mentre «i maldicenti cercano di azzeccare a chi somiglino i miei figlioli»).
Per concludere, vorrei dire due cose su come è fatto (scritto) Pošechon'je.
Le variazioni di ritmo sono tanto sottili, quasi inavvertibili,
quanto incessanti. Passaggio da passato prossimo a passato remoto, e
da passato a presente («ecco che...»); passaggio dal personale
all'impersonale, e quindi dalla forma romanzo alla forma saggio
(antropologico, o sociologico, o morale); passaggio dalla seconda
alla terza persona «impersonale», una specie di monologo interiore;
più raramente alla prima persona (le apparizioni in scena del
narratore sono rarissime, eppure ci sono) o al commento («può darsi
che questa conversazione sia stata un po' abbellita da qualche
vicino spiritoso» - una notazione che la dice lunga su cose narrate
e che non possono aver avuto il narratore come testimone).
Una parola infine sulla struttura. Prima ho citato tre diverse
traduzioni di un titolo: Cronache, Bozzetti, Schizzi. Tutti
vedono anche nei Signori Golovljòv una organizzazione
frammentaria, quasi fosse un limite. Ma in questo romanzo e in Pošechon'je
è la stessa, identica (solo più ampia), di quella del nostro Gattopardo.
Lo «schizzo», o il ritratto, di personaggi che poi ritornano, sempre
si inscrive in una specie di polittico, vale a dire la campitura che
meglio si addice all'evocazione di un mondo inconsapevole, che di sé
non ha alcuna idea, altro non ha che abitudini, ripetizioni, vizi,
aperte o soffocate crudeltà.