Recensioni / I versi della tarantola

Il 17 ottobre del 1973, dopo un’agonia durata ventidue giorni, moriva in un ospedale romano la poetessa austriaca Ingeborg Bachmann. Aveva quarantasette anni, molti dei quali, dopo il 1953, trascorsi in Italia. A ucciderla furono le ustioni provocate da un incendio divampato nella notte tra il 25 e il 26 settembre – forse una sigaretta accesa lasciata cadere nel sonno – nella casa di via Giulia dove viveva sola. Sul corpus relativamente smilzo delle sue opere – un centinaio di liriche, un romanzo tradotto da Adelphi, il bestseller “Malina”, l’abbozzo di un altro, “Il caso Franza”, qualche racconto, alcuni saggi critici, tre radiodrammi, pubblicati sempre da Adelphi con il titolo “Il buon Dio di Manhattan” – è andato crescendo nel tempo il mito della scrittrice inquieta e geniale, della poetessa severa travolta da passioni trasformate in cupio dissolvi, della viaggiatrice smarrita nella ricerca del cuore delle cose, sempre sconfitta nel tentativo di costruire relazioni impossibili: l’amicizia amorosa con il poeta ebreo rumeno Paul Celan, quella sentimental-fraterna con il musicista tedesco Hans Werner Henze, omosessuale dichiarato, la convivenza fallita con lo scrittore svizzero Max Frisch. La stessa morte nel fuoco della Bachmann è stata interpretata come l’epilogo sacrificale, e tragicamente teatrale, di un’esistenza messa in gioco, per scelta e per principio, rinunciando a ogni difesa.
Nell’ultimo decennio, a illuminare la realtà oltre il mito della vicenda della Bachmann, sono stati pubblicati gli epistolari con Celan (“Troviamo le parole”, tradotto da Nottetempo) e con Henze (“Lettere da un’amicizia”, Edt). Lunedì prossimo, uscirà in Germania per C. Bertelsmann una nuova biografia della scrittrice a firma di Andrea Stoll, già curatrice del carteggio con Celan. Il libro si intitola “Ingeborg Bachmann. Der dunkle Glanz der Freiheit”, ed è stato anticipato giovedì scorso dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung come rivelatore di aspetti inediti della vita della poetessa.
Una prospettiva inusuale e convincente è anche quella proposta dal bel saggio critico della germanista e traduttrice Camilla Miglio, pubblicato da Quodlibet e intitolato “La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann” (174 pagine, 22 euro). Il testo è stato concepito “in quattro movimenti musicali”, spiega la studiosa, perché è la musica la chiave fondamentale per accedere all’ispirazione della poetessa di Klagenfurt (la città della Carinzia dove nel 1880, quarantasei anni prima della Bachmann, era nato Robert Musil). E perché attorno alla musica e con la musica crebbe il fondamentale sodalizio con Henze, conosciuto nel 1952 in occasione di una delle periodiche riunioni del Gruppo ’47, il movimento di giovani intellettuali di lingua tedesca nato a Monaco di Baviera nel 1947 e sciolto vent’anni dopo.
Come nelle favole a lieto fine, è in un castello (la rocca di Berlepsch, sulla strada tra Kassel e Gottinga) che si incontrano la giovane poetessa, già circondata da fama di prodigio e di “divina”, e l’altrettanto giovane compositore (erano nati a una settimana di distanza). Ingeborg legge alcune sue liriche e Hans, che le avrebbe poi definite “belle e tristi”, riconosce all’istante in lei la compagna dell’anima, l’unico essere umano a lui perfettamente affine (tre anni dopo le chiederà di sposarlo e di vivere insieme a Napoli, sapendo già che si tratta di un progetto impraticabile per la sua omosessualità). Ma ora, dopo averla vista e ascoltata per la prima volta, le scrive d’impeto un biglietto: “cara signorina bachmann – non La vedrò mai più? Lunedì mattina parto per colonia, se vuole, La prendo con me” (le minuscole e le maiuscole riproducono quelle dell’originale).
Nel corso del tempo, i due potranno anche allontanarsi, litigare e polemizzare, ma non si perderanno mai, fino alla fine. Ha scritto il curatore del loro epistolario, Hans Höller, che le lettere della Bachmann e di Henze, in una polifonia di idiomi e di toni (italiano, tedesco, inglese, francese sono spesso usati insieme nello stesso testo) costituiscono “una complessa partitura a due voci” che copre vent’anni di vita, e nella quale “si incontrano molti dei temi che caratterizzeranno l’opera di entrambi: l’odio per la Germania nazista, la fuga verso il sud, la libertà vissuta nella
natura mediterranea, l’isolamento intellettuale e l’impegno politico, l’ambivalente impatto del successo, la violenza degli istinti e la folle gioia della bellezza, la ricerca di un impossibile equilibrio tra opera, vita e amore”. Di quell’impossibilità sono spesso le lettere di Henze a parlare con desolata e rabbiosa franchezza. Come in questa del 1955, spedita all’amica che vive
pesanti difficoltà economico-esistenziali, come quasi sempre le accadrà: “o mia signora dove stai vagando? oh vieni e resta! vederti in quello stato, quando invece dovresti essere una signora benestante e tranquilla, con una vita normale e ben organizzata, e qualcuno pronto ad accudirti. Sarei stato estremamente lieto di farlo io, al prezzo di assolutamente nulla?! ma il pensiero che tu faccia tutte queste pazzie solo perché il caso vuole che io sia finocchio mi manda su tutte le furie – è questo, per così dire, il punto che realmente mi infastidisce e ferisce, e l’orgoglio mi imponedi ribellarmi a una tale reazione. Il fatto che tu non voglia accettare la mia ospitalità, che significherebbe una certa sicurezza per te e che da parte mia è un gesto di venerazione nei tuoi confronti, è umiliante, non per il rifiuto in sé, quanto perché mi fa comprendere con chiarezza che la sig.na B. non può sopportare di stare con me perché sono finocchio. Soffre, d’accordo.
Il fatto che soffre fa soffrire anche me. arrivederci. hans”.
Nonostante le difficoltà e i contrasti, dalla collaborazione professionale tra la Bachmann ed Henze, corollario e surrogato di quella strana specie di amore, nasceranno il radiodramma “Die Zikaden”, “Le cicale” (1955), il libretto per il balletto-pantomima “L’Idiota” (1955) e quelli per le opere “Der Prinz von Homburg” (1958) e “Der junge Lord” (1965).
All’inizio, però, c’è l’ineluttabile “fuga verso sud”, nella quale Henze precede di poco la Bachmann, che l’aveva già decisa per conto suo. Una fuga che si avvera per entrambi, a smentire e insieme a realizzare una delle poesie lette dalla poetessa a Berlepsch, intitolata “Manovre autunnali”: “E non ci è data via di fuga verso sud – / Agli uccelli invece sì”, leggiamo nella lirica.
Scrive Camilla Miglio che “andare a sud per molti tedeschi significava cercare un luogo abitabile. Così per Henze, che appena pochi anni dopo avrebbe scritto, in uno zoppicante italiano all’amica Inge, di non poter più vivere in Germania, considerata da lui un paese di assassini e di sterminatori a piede libero: ‘Perciò ti ripetto (sic) che, per la nostra propria salute, non possiamo permetterci di tornare in quel paese di assassini, neofascisti, neo neurotici’”.
Sarà per rispondere a un secondo e insistito invito di Hans che nell’estate del 1953 Ingeborg arriverà a Ischia, dove il musicista si è appena stabilito. Ad accoglierla e a sedurla è un’Italia ctonia, come scrive Camilla Miglio. Un paese che negli anni Cinquanta è ancora potentemente percorso dai riti tellurici che intrecciano e sovrappongono paganesimo e cristianesimo.
E’ un meridione primordiale, popolato di animali minacciosi e magici – la tarantola, la vipera – il cui morso può essere mortale ma può far nascere anche a una vita diversa, a una diversa e autentica comprensione delle cose. E’ questo il paese che nutrirà, come un sotterraneo lago vulcanico alimenta una sorgente, i versi “italiani” della Bachmann, la quale accetterà e cercherà,
senza difendersi, di essere “morsa dalla tarantola”. Questo l’approdo di una “fuga verso sud” nella quale si “segna una discontinuità – scrive Camilla Miglio – rispetto alla tradizione tedesca, che era stata decisiva nella costruzione dell’immagine del sud ‘classico’, nelle sue declinazioni ora apollinee ora dionisiache”. Non c’è l’Italia splendente e divina di Goethe, nella poesia di Ingeborg Bachmann, né “il topos del paesaggio meridionale come luogo d’incontro con un Antico figurato ad usum dell’Humanität goethiana (e ancora vivido – sia pure in altre forme – nell’immaginario di un Nietzsche o di un Gottfried Benn)”. All’opposto, non c’è nemmeno il sud estetizzante in quanto luogo “di dissipazione e disfacimento”, come in “Morte a Venezia” di Thomas Mann oppure in “Andrea o i ricongiunti”, di Hugo von Hofmannsthal. Piuttosto, il sud di Ingeborg Bachmann si rivela coincidente, geograficamente e “geopoeticamente”, scrive la Miglio, con quello che, negli stessi anni Cinquanta, andava esplorando l’antropologo Ernesto de Martino, e sul quale si stava concentrando anche la ricerca musicale sulla voce, sul pianto rituale e sulla canzone popolare di Hans Werner Henze.
L’autrice del saggio immagina, ed è verosimile, che Ingeborg Bachmann potesse aver avuto tra le mani il numero di Nuovi Argomenti del 1953 su cui De Martino aveva pubblicato il suo “Diario di viaggio” in Lucania e in Puglia. Magari non è andata così, ma di certo l’antropologo italiano e la poetessa austriaca parlano dello stesso sud: quello delle feste popolari e delle tradizioni
arcaiche, dei canti e delle danze ritmate che percuotono la terra, dell’esperienza del sottosuolo infero e della luce che acceca, della vita contesa alla morte giorno dopo giorno. E’ l’esperienza dell’umano quintessenziale, nella sua sostanza di dolore e di attesa. Proprio di questo, della riconquista della radice dell’umano dopo il disastro della guerra – riconquista che prende la forma di un’iniziazione ancestrale – andavano in cerca l’austriaca Bachmann e il tedesco Henze. Entrambi decisi ad allontanarsi dalle patrie segnate dalla colpa dei genitori (in senso non solo figurato: entrambi i padri, quello di Hans e quello di Ingeborg, erano stati insegnanti impegnati nella diffusione della propaganda nazista), per raggiungere finalmente “la terra prima”.
Così, “La terra prima” si intitola la lirica che apre le “Invocazioni all’Orsa maggiore”, scritte dalla Bachmann nel 1956: “Verso la terra mia prima, verso sud / migrai e trovai, nudi e in miseria / e fino ai fianchi nel mare, / castello e città”. Riconquista dell’umano, per lei, non può significare consolazione e dolcezza del vivere: “Là non cadeva sogno. Là non fiorisce rosmarino, / né uccello rinfresca / il suo canto in sorgenti. / Nella terra mia prima, a sud / m’assaltò la vipera / e l’orrore nella luce”.
Scrive Camilla Miglio nel “primo movimento” del suo saggio che il sud della Bachmann “è approdo a sua volta inospitale, a sua volta tutt’altro che tranquillizzante. Anzi: proprio l’aspettativa di rigenerazione e ritrovamento di sé per secoli affidata dai tedeschi al refugium-Italia fa esplodere le contraddizioni (…) tutta la ‘sua’ terra italiana è un pericolo mortale: per la straniera come per il lazzarone, per il contadino lucano, per il pescatore di Ischia e per il tarantato pugliese, tutti a vario titolo posseduti da forze profonde. Nel sud bachmanniano nessuno può sentirsi fino in fondo padrone di sé: lo dice la lunga durata della geologia e della tradizione. A sud non ritroviamo, ma disperdiamo noi stessi”.
Dopo la Campania di Napoli e di Ischia, la scrittrice viaggiò in Puglia e in Lucania. Ne è rimasta traccia in “Apulia” (1955). Terra lontana dalle rotte consuete dei viaggi in Italia, come la stessa Bachmann avrebbe sottolineato in questo suo appunto critico: “La Puglia si trova su ogni carta geografica d’Italia, ma ne è una delle parti più sconosciute, una terra antica, in parte Magna Grecia, in parte via longobarda, porta testimonianze diffuse: tufaceo barocco a Lecce, gotico [sic] a Trani e a Bari, chiese greche a Gallipoli, oggi invase dalla vegetazione e ancora inondate di luce, terra di contadini, e terra dei porticcioli, dei frutti di mare, banchi di cozze a Taranto, raramente i tedeschi si sono spinti fin qui, Platen invece sì (il riferimento è al poeta romantico August von Platen, ndr), le vie classiche d’Italia non conducono fin laggiù”. L’imprecisione che le fa chiamare gotico quello che in realtà è il romanico pugliese, all’epoca ancora sconosciuto al grande pubblico e non solo (lo storico dell’arte Cesare Brandi avrebbe pubblicato solo cinque anni dopo il suo “Pellegrino di Puglia”), non fa che confermare l’aura di indeterminato, di viaggio magico, ai confini del mondo reale (inteso anche come mondo interiore, come “geografia dell’anima”) che accompagna l’andare “verso sud” della poetessa di Klagenfurt. In “Apulia” anche il sole non riesce a riscaldare ma solo a bruciare, e il riscatto dal dolore è ipotesi utopica, come in questi versi nei quali si riconoscono Matera e i suoi “sassi”: “In città cave stambura il tamburo, / bambini
stanno nei trogoli / prede di mosche a nugoli, / pane chiaro, labbro scuro.
S’aprisse dai campi, chiaro, il giorno al troglodita / dalle lampade il papavero sfumerebbe, / tutta la pena nel sonno sfollerebbe, / fino a sfarsi del tutto, esaurita”.
Sappiamo che negli stessi anni del suo intenso lavoro poetico, Ingeborg Bachmann esercitava la propria capacità di osservazione in una serie di corrispondenze per Radio Brema e per alcune testate giornalistiche tedesche. Scritte da Roma, dove la Bachmann aveva fissato la propria residenza italiana, e firmate con lo pseudonimo di Ruth Keller, quelle corrispondenze sono state pubblicate nel 2002 in un libretto da Quodlibet, che in questi giorni ne manda in libreria la ristampa (“Quel che ho visto e udito a Roma”, 128 pagine, 11 euro). Ingeborg Bachmann racconta ai lettori di lingua tedesca l’Italia tra il 1954 e il 1955: il lancio sul mercato automobilistico della Seicento Fiat, l’inaugurazione della metropolitana a Roma, i turisti a via Veneto durante le vacanze pasquali, i dibattiti parlamentari sull’adesione dell’Italia alla Nato, lo scandalo Montesi e le sue ripercussioni politiche, le nozze della primogenita del re esiliato, Maria Pia di Savoia, che mobilitano l’attenzione del paese come e più che se l’ex casa regnante lo fosse ancora. Ma è nella prosa che dà il titolo alla raccolta che, descrivendo ciò che ha “visto e udito a Roma”, la ventinovenne Bachmann condensa i motivi di un amore che sconfina nell’odio, dell’attrazione e della repulsione per la città dove sarebbe morta diciotto anni dopo: “Quando a Roma mi passarono l’udito e la vista, venne lo scirocco e aveva vinto sul vento aquilone delle montagne. Il sole allora mise la camicia e risplendette di luce falsa. E’ il tempo in cui aumentano le disgrazie ed è facile pronunciar parole senza amore. Perché il vento caldo ci ricaccia nel deserto. A volte lo fa sapere, sparge sabbia rossa sulla città infiacchita e ci soffia sopra fino a lasciarla priva di sensi. Quando lo scirocco se ne va, lo fa in segreto e durante la notte, mentre noi dormiamo smemorati. Ma al mattino, verso le tre, cade la rugiada. Se si potesse giacere lì svegli e inumidirsene le labbra! A Roma di mattina presto ho guardato dal cimitero protestante fino al Testaccio e ho gettato la mia pena. Chi si affatica a gettar via la terra, ci trova sotto la pena degli altri…”.
Hans Werner Henze, morto anche lui in un giorno di ottobre, quasi un anno fa, carico di fama e di riconoscimenti, avrebbe così ricordato l’amata amica Ingeborg: “I suoi parenti non vollero autorizzare una sepoltura nel Cimitero Protestante di via Caio Cestio. Ci sarebbe stato posto, per lei, tra Shelley e Keats, le sarebbe piaciuto – in effetti non aveva mai più voluto abbandonare
la terra della nostra prima nascita”.