Se il filosofo è colui che rivolge il suo sguardo interrogativo al mondo
e a se stesso, edificando e abbattendo ogni giorno una nuova visione
della realtà; e se il regista è quel tipo curioso e
diffidente che si affanna a catturare frammenti sparsi di vita, provando
poi a riordinarli in una narrazione più o meno organica, allora tra il
linguaggio cinematografico e quello filosofico
esiste un rapporto di forte, profonda affinità, e possiamo dunque
convenire con Daniela Angelucci quando afferma che il cinema mostra la
vita del pensiero condensata in una visione.
Nel nostro mondo contemporaneo, abitato da migliaia di occhi e
dispositivi che registrano e inviano innumerevoli messaggi audiovisivi,
una riflessione sull’intreccio tra cinema e filosofia,
tra visione e pensiero, è particolarmente urgente. E lo è forse ancor di
più se condotta mantenendo costante il riferimento al binomio
vero/falso, tenuto conto della frequenza con cui, oggi, si dimentica il
medium con cui la realtà viene raccontata, e si spacciano le narrazioni
per testimonianza fedele. In un simile percorso di ricerca, avere come
compagno di viaggio Gilles Deleuze può essere davvero prezioso.
Già scorrendo l’indice del libro di Daniela Angelucci ci si accorge che
l’autrice ha fatto proprio lo spirito deleuzeano: i titoli dei dieci
capitoli che compongono
il libro (Movimento,Tempo, Virtuale, Sadismo, Caso, ecc.) non
scandiscono un percorso lineare, progressivo, orientato verso la
dimostrazione di una tesi, ma suggeriscono piuttosto le tante
prospettive da cui è possibile osservare un volto, o, come afferma lo
stesso filosofo francese descrivendo le tecniche narrative adottate dai
cineasti moderni, le pietre su cui si procede a salti nel tentativo di
attraversare un fiume. Il linguaggio del cinema e della filosofia hanno
acquisito una nuova identità allorché hanno riconosciuto come ricchezza
la frammentarietà e la discontinuità narrativa: è Deleuze stesso a
chiarircelo. Se il cinema classico, quello costituito di immaginazione,
aveva come suo fondamento l’intreccio drammatico unitario, rigorosamente
regolato dal nesso causa-effetto, nel cinema moderno si può davvero
dire che cambia il tempo, e ogni inquadratura, svincolata dalla rigida
organizzazione del montaggio analitico, guadagna
in profondità temporale, e dunque in autonomia. Un fenomeno già
anticipato da Dreyer nel 1928, in quell’esitazione che accompagna
ciascuno degli intensissimi primi piani che compongono
La passione di Giovanna d’Arco, debordando di continuo dal binario
narrativo classico. Una mutazione che diviene vera e propria rottura
negli anni quaranta, con il cinema di Welles e il neorealismo. Il
piccolo Edmund di Germania anno zero, ci ricorda l’autrice, è più
“veggente” che “attante”. Le immagini di case bombardate in Roma città
aperta, i prolungati piani-sequenza sul mare in La terra trema sono
squarci improvvisi aperti nella tela narrativa; immagini ottiche e
sonore pure, direbbe Deleuze. Così la straordinaria profondità di campo
che Welles propone in
Citizen Kane non è semplicemente un invito alla lettura della pluralità
di piani narrativi, ma un’esposizione della profondità temporale
dell’immagine, spazio-tempo visivo in cui convergono
il presente e la memoria, il reale e l’immaginario.
È naturale che una simile evoluzione del linguaggio cinematografico
imponga una riconsiderazione radicale del rapporto tra vero e falso:
nell’orizzonte straordinariamente ampio delle inquadrature moderne, è
ancora possibile mantenere una percezione chiara delle proporzioni? È
possibile distinguere il fatto dalla rappresentazione? Il logico
dall’illogico? Il definito dall’incerto? L’autrice dedica numerose
pagine al confronto tra il cinema di Welles e la filosofia di Nietzsche,
un accostamento quasi naturale, benché non vincolante (Roland Barthes,
ad esempio, associa la filosofia nietzscheana al cinema di Antonioni,
così come è possibile un confronto tra Citizen Kane e il Wittgenstein
delle Ricerche filosofiche). Ad ogni modo, artisti
e filosofi citati operano una decisa riabilitazione del falso e una
valorizzazione della differenza, dell’apparenza, al di là delle
strettoie soffocanti del punto di vista unico e della narrazione
consequenziale. E non è un caso che Deleuze, nelle pagine di
L’immagine-tempo, individui una significativa somiglianza tra Hitler e
Hollywood, a segnalare la pericolosa vicinanza fra totalità e
totalitarismo. La decapitazione liberatoria del vero si esprime nel modo
più esemplare nelle pagine conclusive del saggio, dedicate all’analisi
di un film poco noto, ma di grande potenza espressiva. Si tratta di Le
mystère Picasso di Henri-Georges Clouzot, pellicola del 1956 che
riprende il pittore spagnolo mentre dipinge, consentendo allo spettatore
una prossimità straordinaria con la tela e con la progressiva creazione
dell’opera.
Il film è un limpido esempio di cinema della durata: un’interpretazione
classica, narrativa leggerebbe i 78 minuti di proiezione come percorso
lineare e consequenziale di avvicinamento
all’opera d’arte finalmente compiuta; ma Angelucci, e con lei Deleuze,
Bazin e Picasso stesso, ribaltano la prospettiva tradizionale,
interpretando il quadro finale come uno dei tanti che la
macchina da presa ha registrato, il fermo-immagine conclusivo che, per
caso o per scelta poco importa, si è deciso di appendere alle pareti di
un museo. In questa profondità temporale –
quarta dimensione dell’immagine pittorica – si esprime con enfasi il
capovolgimento della filosofia platonica operato dal pensiero e dal
cinema moderno, un ribaltamento del rapporto gerarchico tra copia e
originale che ci ricorda molto le considerazioni di Abbas Kiarostami nel
suo Copia conforme del 2010.