Recensioni / L'impero dei segni. Eisenman e/o Terragni

1. Da Terragni a Terragni. “Tutto è iniziato nel momento in cui sono arrivato a Como per la prima volta”: tale il consueto refrain dei racconti di Peter Eisenman, qualora lo si inviti a ripercorrere le principali tappe della sua formazione.
Era l’estate del 1961, ed Eisenman, arrivato in Inghilterra nel 1960, si era da non molto iscritto a Cambridge. Presso l’università inglese, in quegli anni, insegnavano tra gli altri James Stirling, Alan Colquhoun, Peter Smithson e, soprattutto, Colin Rowe. Proprio con Rowe il giovane Peter intraprese un lungo viaggio per l’Europa che, dall’Olanda, lo condusse sino all’Italia. E fu proprio in Italia, dinnanzi alle architetture di Palladio e ancor più di Terragni, che –stando a quanto racconterà– avvenne nel giovane architetto una sorta di “rivelazione”: sarebbe stato l’impatto con tali opere a suggerirgli la necessità di sottoporre ad analisi i fondamenti formali dell’architettura.
Non è qui il caso di tentare di render conto di come l’incontro con le opere di Palladio e Terragni abbia in fondo stimolato qualcosa che già covava nella mente di Eisenman, ossia di verificare quanto lui stesso riferisce. Certo è che sin dai suoi primi scritti –che rivelano chiaramente l’impatto della lezione di Rowe e, tramite lui, di Wittkower– il suo interesse si incentra sulla questione della forma in architettura. La sua tesi di PhD verte, come noto, sul tema: The Formal Basis of Modern Architecture; e il suo primo articolo, uscito nel 1963 su “Architectural Design”, è intitolato Toward an Understanding of Form in Architecture.
La scelta, da parte di Eisenman, di porre la forma al centro della sua riflessione e della sua ricerca progettuale ha a proprio fondamento l’esigenza, ben delineata già nella tesi di PhD, di confinare in secondo piano tutto quanto condizioni l’architettura senza essere tale: a determinare la pratica progettuale altro non possono essere che ragioni a essa intrinseche. Questa convinzione, maturata sin dai primi anni ’60, è destinata a costituire il postulato implicito e il principale motivo di continuità di tutta l’opera di Eisenman, nonché la ragione del ruolo privilegiato che vi detiene la riflessione sulla forma. All’interno di quest’ultima, la figura di Terragni occupa un ruolo cardine. Un capitolo della tesi che Eisenman appronta per il conseguimento del PhD è dedicato all’opera dell’architetto comasco; e negli anni successivi numerosi sono gli articoli e le dichiarazioni che denunciano la persistenza di un profondo interesse nei confronti di Terragni e l’intenzione, a lungo ribadita, di analizzarne più estesamente e organicamente alcune architetture. Più volte lo studio in corso sull’opera di Terragni viene annunciato come in fase di ultimazione e di imminente pubblicazione; nella seconda metà degli anni settanta, il lavoro sembra aver raggiunto uno stadio così avanzato che ne viene appositamente approntata l’introduzione, Il soggetto e la maschera di Manfredo Tafuri. Ma poi non viene dato alle stampe alcun libro, e su di esso inizia ad aleggiare la fama di un’opera inconcludibile, sebbene negli anni novanta almeno due versioni ritenute “quasi definitive” vengano fatte circolare tra alcuni amici dell’autore. Finalmente, a quaranta anni dalla discussione della tesi e dall’avvio della riflessione sull’opera di Terragni, l’“opera della vita” di Eisenman viene pubblicata per i tipi di Monacelli Press (nel 2003) e ora, in seconda edizione mondiale, per Quodlibet.
La distanza dal contesto culturale in cui fu ideato e in cui avrebbe dovuto vedere la luce rende Giuseppe Terragni. Trasformazioni, scomposizioni, critiche un prodotto che intrattiene rapporti complessi con l’attualità: un’opera in qualche misura anacronistica, ormai in relazione labile con le istanze che l’hanno a suo tempo portata alla luce. L’ideazione e le prime stesure del libro sono sostanzialmente precedenti, e solo in parte coeve, sia al costituirsi del gruppo dei Five –Michael Graves, Charles Gwathmey, Richard Meyer, John Hejduk e, appunto, Peter Eisenman– in occasione di un celebre meeting organizzato nel 1969 da Kenneth Frampton presso il MoMA di New York, che ai progetti delle Houses I-X (tra il 1967 e il 1975), che assicurano ad Eisenman fama internazionale. È, tuttavia, in questa fase che l’attività di Eisenman presenta le affinità più spiccate con la ricerca che sfocierà in Giuseppe Terragni. Trasformazioni, scomposizioni, critiche. Ciò nonostante, non si tratta di un’opera postuma, scritta allora, rimasta a giacere in un cassetto per decenni e recentemente riemersa già ultimata e rifinita. Spesso si dimostra, anzi, estremamente difficile comprendere cosa Eisenman, rispetto al libro che doveva uscire un tempo, abbia nel frattempo levato, aggiunto, mutato; difficile, se non impossibile. E così, quanto nell’approccio di Eisenman nei confronti dell’architettura è nel frattempo mutato, a partire dai principali referenti culturali (da Rowe attraverso Tafuri fino a Derrida…), nel libro si trova non di rado giustapposto o stratificato. Risulta, inoltre, evidente come l’uscita di Giuseppe Terragni. Trasformazioni, scomposizioni, critiche proprio oggi non possa essere considerata come puramente casuale, come frutto della mera contingenza; l’immenso sforzo profuso per la sua realizzazione è di per sé sufficiente a far decadere una simile ipotesi. Forse è più appropriato intenderne la pubblicazione come inattuale: come il tentativo –coerente con la collocazione di Eisenman all’interno del dibattito architettonico, in qualche modo come grande isolato– di riproporre una serie di questioni ormai da lungo tempo accantonate.
Infine, malgrado il libro intrattenga stretti rapporti con la logica che presiede ai progetti per le Houses assai più che con i progetti dei decenni successivi, la sua odierna pubblicazione suggerisce la possibilità di osservare alcune opere tra le più recenti di Eisenman –in primis il Memoriale dell’Olocausto, da poco inaugurato a Berlino– sotto nuova luce.

2. Da Eisenman a Eisenman. “Tutto quello che hai scritto su Terragni non contiene altro che la spiegazione delle ragioni dei tuoi progetti”: è con queste parole che Francesco Dal Co si rivolge ad Eisenman nel corso di un recente colloquio. Su questo concorda pure Eisenman: “non si tratta di un libro su Terragni”, asserisce infatti senza alcuna incertezza nel medesimo colloquio, riferendosi alle innumerevoli stesure del testo ora dato alle stampe.
Già queste scarne dichiarazioni la dicono lunga su quanto sia difficile rapportarsi a Giuseppe Terragni. Trasformazioni, scomposizioni, critiche, che, nei Ringraziamenti per l’edizione italiana, Eisenman definisce senza meno come la propria “biografia”, paragonandolo tra l’altro all’Autobiografia scientifica di Aldo Rossi. Non occorre dire come la denominazione di “biografia” sia da assumere con estrema cautela: alla sua adozione concorre certamente il fatto che il libro esca quando Eisenman ha ormai alle spalle una lunga carriera, e pertanto si ponga come una sorta di “summa”;  le molte stesure e il tempo ad esse dedicato stanno a testimoniare come il testo ora pubblicato sia, piuttosto, una sorta di “diario di bordo”, ridotto all’osso, dell’attività di interi decenni.
Eisenman ha più volte ribadito l’aspirazione a “ridurre ad un grado zero il significato iconico del modernismo e [a] farne un semplice materiale”. Tutta l’analisi condotta nel libro su Terragni ha come presupposto la riflessione, intrapresa a partire dagli anni sessanta, sul carattere linguistico dell’architettura. “A differenza di quanto avviene nel linguaggio verbale –affermava Eisenman, ribadendo il concetto in una serie di articoli dei primi anni ‘70–, le forme architettoniche, i piani, i muri, i colonnati, non sono “segni” ai quali sia stato dato un significato convenzionale ed immotivato”. Questo però avviene in misura e modalità diverse. Mentre nell’architettura di Le Corbusier, ad esempio, secondo Eisenman “l’oggetto non perde mai la sua dimensione semantica”, in quella di Terragni le forme risultano spogliate “dal loro significato tradizionale per usare invece il modello formale come riferimento sintattico profondo a cui far corrispondere le sue forme specifiche. Dal momento che nell’opera di Terragni qualsiasi iconografia intenzionale è necessariamente ridotta, è possibile vedere le sue forme in una dimensione sintattica e in particolare, nel loro rapporto con l’aspetto concettuale della sintassi”; così, per comprenderla occorre “una variazione di accento critico, che si sposti dall’accento semantico a quello sintattico”. Per Eisenman, come noto, la divaricazione della dimensione semantica da quella sintattica dell’architettura non costituisce la premessa di una nuova significazione. Obiettivo di Eisenman architetto –nei progetti per le Houses, perlomeno– è, anzi, quello di condurre alle estreme conseguenze la loro autonomia. “Il compito per un’architettura concettuale –scriveva Eisenman nelle Notes on a Conceptual Architecture del 1970– dovrebbe essere non tanto quello di trovare un sistema segnico o un meccanismo di codificazione, dove ciascuna forma in un contesto particolare assume un significato concordato, ma piuttosto appare più ragionevole investigare la natura di quelli che sono stati chiamati universali formali e che sono inerenti ad ogni forma o costrutto formale. Compito alquanto più difficile sarebbe quello di trovare un modo per dare a queste strutture concettuali la capacità di generare significati più precisi e complessi semplicemente attraverso la manipolazione di forma e spazio”. Estremamente chiaro risulta, così, almeno negli intenti, l’obiettivo perseguito da Eisenman: ridurre la dimensione semantica per “produrre una struttura per il nuovo significato, senza sviluppare un nuovo sistema segnico”.
Il fatto che le dichiarazioni di Eisenman sull’opera di Terragni e sui suoi personali intenti si intreccino sino a farsi inestricabili conferma, tuttavia, e ripropone i problemi già sollevati e induce a domandarsi se il libro abbia come proprio oggetto l’opera di Terragni o sia piuttosto una dichiarazione d’intenti compiuta attraverso l’esplicazione di alcuni caratteri dell’opera di quest’ultimo –sempre che i due intenti si escludano necessariamente a vicenda. Ad ogni modo, si è costretti a procedere con particolare cautela.

3. Trasformazioni. Il libro si presenta diviso in due parti: la prima dedicata alla Casa del Fascio (Trasformazioni), la seconda alla casa Giuliani-Frigerio (Scomposizioni). Alle altre opere di Terragni sono riservati solo accenni sporadici, quanto lo sono quelli alla coeva architettura italiana ed europea.
Su entrambi gli edifici viene compiuta quella che Eisenman definisce una “analisi testuale critica”: “Qualunque architettura può essere letta in modo testuale. Si può anche affermare che nessuna architettura è intrinsecamente più testuale di altre. Ma l’ipotesi qui postulata suggerisce che alcuni tipi di architettura siano particolarmente aperti a letture testuali che sostituiscono le interpretazioni canoniche con l’uso di un discorso prima di tutto formale, definito all’interno dei parametri di un periodo storico. Ovvero certi edifici liberano le relazioni tra le implicite e stabili convenzioni iconiche, storiche, estetiche e funzionali”; e la Casa del Fascio è uno di tali edifici.
Non è facile intendere esattamente quale significato Eisenman attribuisca all’“analisi testuale critica” che dichiara di voler operare; le definizioni che egli ne offre rischiano spesso di gettare più fumo che luce. Certo è che la categoria primaria attraverso cui la Casa del Fascio viene interpretata è quella della trasformazione, o meglio delle trasformazioni. Per analizzare l’edificio, dichiara Eisenman, si proporrà una nuova “narrativa trasformazionale”: “qui il processo di trasformazione diventa critico, nel senso che le tracce del processo sono viste come elementi che minano l’interpretazione formale tradizionale di tali processi e la loro derivazione da preoccupazioni funzionali”. Che, nel caso dell’edificio preso in esame, quest’ultimo ordine di preoccupazioni possa esser considerato come secondario, se non marginale, sarebbe tra l’altro testimoniato dal fatto che, come Eisenman avrà modo di mostrare, i prospetti dell’edificio intrattengono un rapporto estremamente libero –ossia di indifferenza, di autonomia– con la distribuzione interna; e, “quando non è più possibile collegare l’articolazione della facciata con un ordine interno in un rapporto simbolico, iconico o funzionale, o con un ordine esterno in relazione all’ordinamento contestuale degli altri edifici, si può postulare l’ipotesi che quei segni abbiano un qualche altro valore. L’effetto è che obbligano l’osservatore a leggere le facciate dell’edificio come index o testo di notazioni critiche più che puramente funzionali o formali”. Per Eisenman, pertanto, la Casa del Fascio non è un “organismo”, che come tale è “zweckmäßig”, volto a un fine, ossia allude a una funzione cui concorrano tutti i suoi elementi, ma la sommatoria di elementi autonomi e reciprocamente incondizionati: è un “testo”, strutturato in base alla sovrapposizione di piani che possono anche correre paralleli, senza mai intersecarsi; e proprio a questa condizione risulta, tra l’altro, possibile “leggerne” piante e prospetti separatamente, o le une e gli altri indipendentemente dall’effettiva funzione dell’edificio.
Porre l’accento su uno di questi piani autonomi, privilegiandolo, è quanto per Eisenman significa compiere la lettura di una determinata architettura –e “lettura” va qui intesa alla lettera, dal momento che Eisenman si propone di leggere le architetture come fossero dei testi. Leggerle, di conseguenza, non significa ripercorre l’effettiva genesi dei progetti, seguendone una a una le fasi (si tratta anche di questo, ma essenzialmente non di questo), quanto piuttosto proporre una serie di modelli –ciascuno dei quali esplicativo di uno dei piani– e sottoporre ad analisi le loro trasformazioni.
Nella misura in cui Eisenman si propone di comprendere i principi del comporre, egli semplicemente si pone dinnanzi all’architettura come architetto, più che come storico. Nondimeno, la sua interpretazione presenta indiscutibili motivi di originalità. Innanzitutto, essa procede logicamente e non cronologicamente. Ognuno dei modelli è sottoposto a un percorso accidentato, di continua metamorfosi; presi nel loro insieme, nella Casa del Fascio i diversi modelli si sovrappongono e intrecciano. La complessità ne è una conseguenza. L’analisi di Eisenman, inoltre, prescinde pressoché completamente da tutti i supporti esterni che, in genere, si adottano per situare il progetto in una cultura, una situazione politica, un dibattito determinati. Anche da questo punto di vista, Eisenman si pone da architetto piuttosto che da storico. Come oggetto dell’analisi, assume il progetto nella sua forma. “Un simile approccio comincia a suggerire le rilevanza di quella che tipicamente viene liquidata come analisi puramente formale –afferma a questo riguardo Eisenman–. Comincia a suggerire la rilevanza di strategie formali viste come parte di un’idea più problematica dell’approccio critico”. In tal modo, Eisenman spazza innanzitutto via tutto ciò che troppo spesso –nella confusione tra fini e mezzi– diviene l’oggetto degli studi storici e, più in generale, sull’architettura: il contesto piuttosto che la modalità con cui l’opera vi si confronta o si organizza. Ma non solo. La forma viene “letta” in termini tutt’altro che ingenui; certo assai meno di quanto si faccia comunemente. Con l’aiuto di 475 diagrammi, di ogni elemento dei progetti presi in esame Eisenman segue (nella misura in cui questo sia possibile) le trasformazioni, le metamorfosi, le sopravvivenze con inesausta minuziosità. Perché la forma, nella sua analisi, non si rivela come un’entità stabile, ma piuttosto come un’entità mutevole a seconda dei punti di vista da cui viene osservata e di ciò che in tal modo emerge con maggiore evidenza, e di poroso, perché contiene in sé le tracce del processo discontinuo –con tanto di ripensamenti e brusche svolte– in cui consiste la progettazione. La forma viene così ad emergere come un’entità pregna di tempo: non del tempo storico, beninteso, ma di quello del farsi del progetto nella sua autonomia, nel suo processo assolutamente autorefenziale, nei diversi piani di cui esso si compone; in particolare, l’analisi condotta da Eisenman presuppone che questo tempo risulti in qualche misura conservato –nella forma, appunto, di tracce (“ciò che studio sono i “testi repressi”, ciò che sta prima e/o al di là della struttura delle figure”)– anche qualora sia stato negato nelle soluzioni poi assunte come definitive. In una certa misura, a mutare è così il modo stesso di concepire il progetto: che, invece che mostrarsi, monoliticamente, come l’ineluttabile compimento di un processo univoco, si apre rivelandosi come uno dei possibili, come il risultato di innumerevoli indecisioni, come l’esito non solo dello scontro delle istanze di partenza con il loro sviluppo, ad esempio, ma del definirsi delle istanze medesime nel corso dello sviluppo, e addirittura del loro rimanere in qualche modo attive persino nel caso in cui siano state scartate, elise; e, comunque, come il frutto di un’attività formale, che, in quanto tale, va “letto” con il supporto di un’analisi del suo specifico –la forma. A questo punto, occorre notare, si rivela come niente più che un apparente paradosso quello per cui la riflessione compiuta da Eisenman sulla forma, intesa come lo specifico dell’architettura, sfocia –tanto nel caso della “lettura” delle opere altrui quanto in quello della progettazione delle Houses– in una concezione dell’architettura all’interno della quale la forma, come esito conclusivo e definitivo di un processo, non ha spazio; “il punto della questione –osservava già Tafuri, a questo proposito– sta nel fatto che Eisenman, a partire dalla fine degli anni ’60, non s’interessa del risultato ma del processo”.
Per seguire i percorsi incerti e contorti attraverso cui conduce la modalità di analisi proposta, occorrono perlomeno una pazienza indefessa, la capacità di abbracciare una molteplicità di punti vista, di portarli alle estreme conseguenze e di ribaltarli, e un notevole rigore analitico. Eisenman dimostra ampiamente di possedere tutte queste qualità. I molteplici modelli adottati per sottoporre ad analisi la Casa del Fascio non si escludono a vicenda. I diagrammi tracciano “letture” alternative, in grado –da un lato– di ricostruire la logica formale del progetto assai meglio che i testi scritti, e –dall’altro– strumentali alla definizione di una serie di soluzioni, o di procedimenti, suscettibili di venir riutilizzati nella pratica progettuale. Il diagramma viene in tal modo a porsi come una sorta di operatore che consenta la trasformazione del progetto in un modello astratto e concettuale, e viceversa.
Non è affatto detto che l’adozione dei modelli proposti da Eisenman fosse effettivamente nelle intenzioni di Terragni: Eisenman non fa mai confusione tra la logica del progetto e le deliberate intenzioni del progettista, e nemmeno tra queste e le sue stesse “letture”. Solo per quel che riguarda la volumetria, ad esempio, la Casa del Fascio –suggerisce– può venir considerata tanto come la trasformazione di un palazzo a quattro torri angolari quanto come quella di un volume cubico scavato da una corte. E questo non è che l’inizio di tutta una serie di ipotesi, che qui non è possibile ripercorrere nemmeno per sommi capi. E non importa se queste ipotesi, suggerite unicamente dall’osservazione di una forma e dall’individuazione delle sue possibili e non accertate logiche interne, siano poi del tutto arbitrarie. Quel che conta è, piuttosto, che per Eisenman “tale lettura non si limita a produrre un testo come un tessuto di tracce o un processo nel tempo; la particolare natura di questo testo si può vedere come critica della storia di tutti i sistemi di lettura stabili”. La Casa del Fascio si rivela, in altri termini, plurivoca: strutturata in base a una serie di costrutti sintattici che si trasformano e si definiscono a seconda della loro propria logica, come pure –talvolta, ma non necessariamente– delle relazioni stabilite con gli altri. I singoli prospetti possono pertanto essere “letti” sia singolarmente sia in rapporto a quelli adiacenti sia a quello opposto, ad esempio, a seconda di quanto si privilegia nella specifica “lettura”; e le “letture” possono essere infinite.
I telai che organizzano i diversi prospetti, ad esempio, possono essere intesi sia come indici di una maglia spaziale, che come segmenti giustapposti al volume originario. “Un aspetto importante della Casa del Fascio –scrive Eisenman– comunque è che il movimento da una posizione di osservazione a un’altra rivela informazioni alternanti piuttosto che aggiuntive. Quello che prima si leggeva in un modo o nell’altro ora si legge in entrambi i modi”. Gli elementi formali dell’edificio sono, in altri termini, concepiti in maniera tale da rendere possibili al contempo più “letture” che non si escludano a vicenda; “quel che un osservatore vede è che la forma rimane la stessa: è la lettura della sua notazione a cambiare”. Del resto, è proprio questo a distinguere un’analisi banalmente formale da quella che Eisenman definisce testuale, la quale, al contrario della prima, non “si fonda su una base originaria e stabile”, perché “non esiste una condizione di base per privilegiare una geometria formale piuttosto che un’altra”. Detto in altri termini, quanto Eisenman mostra in maniera convincente è che, al cospetto della Casa del Fascio, è sufficiente spostarsi di un passo per avvertire come, accanto alla “lettura” appena effettuata, ne sarebbe stata possibile pure un’altra, senza con questo mettere in crisi la prima. La Casa del Fascio, ancor più che come un testo, può così esser vista come un’orditura di testi.

4. Scomposizioni. L’analisi della Casa del Fascio compiuta da Eisenman sorprende e risulta particolarmente feconda per l’inconsueta, stupefacente dimostrazione di come si possano narrare, spiegare, discutere le soluzioni adottate in un progetto e la loro logica. La seconda parte del libro, dedicata a casa Giuliani-Frigerio, si trova alle prese con un oggetto molto diverso. Muta la logica dell’organizzazione sintattica dei due edifici, e in parte muta pure l’analisi. Nella stessa misura in cui nella Casa del Fascio quello che Eisenman riusciva ad articolare era la compresenza di diversi discorsi e, conseguentemente, di diverse possibilità di “lettura”, nella casa Giuliani-Frigerio l’esito di ogni tentativo di tal sorta si rivela fallimentare. Ma non per questo meno proficuo: l’impossibilità stessa di compiere su casa Giuliani-Frigerio il medesimo genere di “letture” effettuate sulla Casa del Fascio è, per Eisenman, “un indice dei limiti dell’idea che possa esistere una cornice metodologica di base per leggere tutti gli edifici. Invece, quel che qui si suggerisce è che il rapporto di qualunque edificio con la sua storia interna rappresenti un gioco complesso di forze e strategie”. Eisenman continua a narrare, spiegare e discutere: ma in questo caso non vi è nulla da narrare, spiegare e discutere che non sia la disarticolazione del discorso: casa Giuliani-Frigerio rivela, infatti, “una strategia generale non narrativa”, indice di “un processo organizzativo indeterminabile”. Ogni traccia si rivela fallace, ogni “lettura” si dimostra alternativa alle altre. Giacché casa Giuliani-Frigerio è strutturata in base all’accostamento di frammenti alla cui dislocazione non presiede alcuna logica complessiva. Mancando qualsiasi coesione, i diversi frammenti si offrono incompiuti e irrelati, tali spesso da mettersi reciprocamente in discussione: “in qualsiasi momento una lettura è stabile e l’altra instabile. Ogni tentativo di rendere quella instabile simultaneamente stabile rende la precedente lettura stabile instabile”.
Casa Giuliani-Frigerio può pertanto essere soltanto intesa, secondo Eisenman, nei “termini di mutevoli relazioni tra frammenti”, “frammenti concettuali che non implicano una precedente condizioni di unità”, lacerti di “un vocabolario normativo senza gerarchia o risoluzione”, di modo che il processo delle trasformazioni può essere ricostruito solo in piccola parte, e comunque rimane “oscillante e instabile” (indecidibile) quanto l’edificio stesso.

5. Metodo. “Questo libro –così si apre l’Introduzione– è il lavoro di due architetti. Nessuno dei due può essere definito uno storico o un critico dell’architettura. Il lavoro di entrambi può essere visto come un tentativo di dislocare le architetture di ciascuno dalle specifiche condizioni storiche”; e l’autore del libro “entra in conflitto tanto con il primo architetto e la sua storia, quanto con la sua propria condizione storica”. Di qui la necessità, avverte Eisenman, di creare “distanza” con mezzi che, però, non sono quelli offerti dalla storia, bensì da una particolare “impalcatura” analitica, da una “nuova struttura metodologica” che, piuttosto che ancorare Terragni al suo contesto storico, tenti di “separare certi significati creati dall’architettura di Terragni dai suoi significati più tipicamente connaturati”. In cosa consiste questa nuova impalcatura? Su cosa si fonda? “Alla base di questa struttura teorica –scrive Eisenman– sta la premessa che in entrambi gli edifici tutte le articolazioni, siano esse stipiti o montanti, tutte le aperture, con le loro speciali misure, forme e posizioni, costituiscano una serie di segni”.
Le due opere di Terragni prescelte vengono, pertanto, estrapolate da un contesto di rara vastità e complessità senza nemmeno tentare di definirne i caratteri e il rapporto che vi intrattengono. Ma è lecita questa operazione di disconnessione dal contesto dell’opera di Terragni, o si tratta di una pretesa ingiustificata? Manfredo Tafuri aveva tentato di dare risposta proprio a questo ordine di questioni nel saggio, Il soggetto e la maschera, che avrebbe dovuto costituire l’introduzione al libro su Terragni e che, come tale, costituisce l’emblema del rapporto stabilitosi tra Tafuri ed Eisenman intorno alla metà degli anni ’70, quando condividono pure l’esperienza di “Oppositions”, ma anche uno dei motivi all’origine dei loro successivi dissapori, per la sua mancata pubblicazione. Terragni –vi afferma Tafuri– nel meglio della sua opera di altro non parla che di “trasformazioni che hanno a loro fondamento elementi primari –muri, colonne, spazi, slittamenti di piani– salutati come significanti arbitrariamente connessi a significati”. Il segno acquisisce così una “fissità allucinata”: “scisso da significati, il segno si fa struttura; riconnesso ai simboli di cui si finge portatore esso sarà solo ridicolo”. È proprio per questa ragione che l’architettura di Terragni, in cui si ha una “volontà di forma che si mostra senza ragioni che possano giustificarla”, possiede “uno spessore non squarciabile con strumenti che siano fuori dal suo gioco”. In tal modo, Tafuri giustifica l’operazione compiuta da Eisenman, stabilendo una forte analogia tra l’architettura di Terragni, da un lato, e le ragioni e i metodi della “lettura” (nonché dell’architettura) di Eisenman.
Più che porsi come un controcampo alla “lettura” dell’opera di Terragni compiuta da Eisenman, pertanto, l’interpretazione offerta da Tafuri ne Il soggetto e la maschera sembra offrirle una giustificazione storica; se di controcampo tra l’introduzione e il libro si può parlare, infatti, è solo dal punto di vista metodologico. Sino a che punto si può accettare questa posizione, in cui Tafuri ed Eisenman sembrano procedere di pari passo? È in tal senso che va interpretata l’opera di Terragni?
A queste domande non è qui possibile offrire una risposta esauriente. È più opportuno limitarsi a interrogare le modalità della “lettura” compiuta da Eisenman. Nel libro non viene mai definito lo sfondo contro cui spicca la figura –o perlomeno l’opera– di Terragni. Non parrebbe però costituire un aspetto di poco conto la possibilità di isolare le due opere dell’architetto comasco rispetto alle sue altre e tutte queste, a loro volta, alle architetture realizzate nella sua cerchia, nel più vasto contesto italiano come in quella europeo, così come sui loro riferimenti impliciti quanto espliciti. E può esulare un qualsiasi studio sull’opera di Terragni –e in particolare sulla Casa del Fascio– dal problema del Fascismo e dell’architettura fascista?
Invano si cercherebbe nel libro di Eisenman risposta a queste domande. Egli non si pone interrogativi sul contesto, come si è detto, e nemmeno sulla eventuale pregnanza metaforica e simbolica delle soluzioni architettoniche –tanto meno dell’edificio nella sua interezza. Compie, piuttosto, un’analisi che –con un’operazione consapevolmente arbitraria– si esercita su oggetti intesi come articolazioni intenzionali di segni privi di senso; e forse, da questo punto di vista, la decisione di occuparsi della casa Giuliani-Frigerio è ancora più eloquente di quella di analizzare la Casa del Fascio. Nemmeno l’analisi del progetto può pertanto ricorrere ad aiuti esterni. In questo, la scelta di escludere qualsiasi ordine di questioni che esuli dalla dimensione sintattica è estremamente coerente. Eppure, Eisenman sa bene quanto sia “antiscientifico e in ultima analisi presuntuoso insistere nel non voler ammettere una corrispondenza tra concetti generali e forme architettoniche che vengono alla luce nello stesso periodo”; l’affermazione della necessità di inquadrare l’ analisi in un contesto più ampio rimane però la mera enunciazione di un principio cui, poi, Eisenman non si attiene.
Certo è che il tentativo di porre tutto il discorso su di un piano astorico e sotto il segno dell’autonomia ha effetti capillari. Invece che tentare di appurare, ad esempio, quale fosse il ‘set linguistico’ a disposizione di Terragni (per comprendere come questi l’avrebbe assunto, impiegato e, eventualmente, “desemantizzato”: se l’architettura è l’articolazione di un linguaggio dato, non occorrerebbe preliminarmente definirne vocaboli e sintassi?), Eisenman fa ricorso a discutibili “invarianti” o “universali formali”. L’esclusione della dimensione culturale, storica, è d’altro canto costitutiva dell’operazione compiuta da Eisenman –e rappresenta, peraltro, una spia che rivela il perdurare dell’influsso di Rowe. Già Mario Gandelsonas –nei primi anni settanta, quando era stato chiamato come “visiting fellow” presso l’Institute for Architecture and Urban Studies di New York proprio su invito di Eisenman– osservava come “il termine “semantico” indichi quegli aspetti che possono essere spiegati in chiave culturale, e il termine “sintattico” quelli che escludono la nozione di cultura, e quindi possono essere considerati universali”, e come pertanto la nozione di cultura –e, di conseguenza, pure di storia– tenda a rimanere estranea alla riflessione di Eisenman.
Le implicazioni della delimitazione del campo d’analisi –e operativo– di Eisenman sono non a caso l’oggetto precipuo delle critiche, sempre più incisive, che Tafuri gli rivolge negli anni successivi alla redazione de Il soggetto e la maschera. Il principale bersaglio di Tafuri, in European Graffiti e poi in “Les bijoux indiscrets”, ancor più che nel successivo Peter Eisenman: The Meditations of Icarus, è proprio il tentativo di Eisenman –e, più in generale, di una parte cospicua della cultura architettonica, soprattutto americana, degli anni ’60 e ’70– di riprendere i “linguaggi di battaglia” delle avanguardie per trasformarli in meri “linguaggi di piacere”. E, questo, avviene a suo parere proprio perché i linguaggi di battaglia vengono disconnessi dall’intento –di operare nel mondo– per cui erano stati approntati. Tafuri riconosce coerenza agli sforzi di Eisenman; non nega l’assenza di qualsiasi forma di nostalgia nel suo modo di operare. Ma a destare il suo disappunto e la sua disapprovazione è l’autoreferenzialità cui la ricerca di Eisenman si condanna –e di cui, forse, talvolta pure si compiace– proprio in virtù della riduzione dell’architettura a una questione di sintassi, e della relativa esclusione del mondo esterno come di qualsivoglia orizzonte storico. La conclusione di Tafuri è lapidaria: “Al risveglio, il mondo dei fatti si incaricherà di ristabilire lo spietato muro fra l’immagine dell’estraneazione e la realtà delle sue leggi”. La ricerca di Eisenman, secondo Tafuri, è pertanto resa evasiva dalla sua ostentata, programmatica chiusura: la sua materia scotta, ma il mancato incontro o scontro con il mondo finisce per renderla rassicurante, situandola a un passo dal ‘frivolo’ (“on the borderline –affermerà Tafuri– separating Nirvana from tragedy”). Ora, le critiche rivolte da Tafuri all’architettura di Eisenman valgono innegabilmente anche a riguardo del libro su Terragni: Giuseppe Terragni. Trasformazioni, scomposizioni, critiche è criticabile esattamente come le varie Houses e gli altri progetti di Eisenman, con i quali peraltro, come detto, intrattiene stretti rapporti. È inoltre criticabile nel momento in cui venga –impropriamente– assunto come un libro di storia; non lo è, ma in una certa misura si fatica a non considerarlo affatto tale, visto il suo oggetto.
Oltre cbe nel materialismo storico di Tafuri, una forte obiezione ai fondamenti teorici della concezione dell’architettura di Eisenman si trova proprio nella linguistica, cui egli pure fa tanto insistito riferimento. Quando Roland Barthes, tra gli altri, osserva come l’“esenzione di senso” sia, per la cultura occidentale, a malapena concepibile, “perché da noi combattere il senso significa nasconderlo o rovesciarlo, mai renderlo assente”, sembra destituire di senso proprio la pretesa di poterne fare a meno: quello occidentale, infatti, non è un impero dei segni, in cui “cio che è accuratamente, doviziosamente offerto da leggere è il fatto che non c’è nulla da leggere”; e a questa condizione il sistema dell’architettura non può certo fare eccezione. La pretesa di riconoscere nell’architettura una dimensione puramente sintattica viene in tal modo radicalmente inficiata.
Su questa base, si possono nutrire forti dubbi sul fatto che sia lecito parlare, come Eisenman invece fa, di “self-referential condition of sign” a proposito di un prodotto culturale quale la Casa del Fascio, come degli elementi di cui è composta (nella stessa misura in cui, ad esempio, sarebbe probabilmente illecito sottrarre a un elemento portante disposto verticalmente e cilindrico –un pilotis di un’opera di Le Corbusier, ad esempio– l’intrinseca facoltà di rimandare a una colonna ‘classica’); tanto più che, come osservava Tafuri, “dalla pura sintassi provengono imprevisti significati”, una “involontaria semantica”. Proviamo però a chiederci cosa avverrebbe nell’ipotetico caso in cui Eisenman prendesse in esame un progetto come quello del Danteum. Egli probabilmente tenterebbe, come sempre, di scindere carattere sintattico e semantico, accantonando quest’ultimo. Cosa resterebbe? Un progetto di architettura, da valutare non per il suo portato iconico, quanto piuttosto per l’eventuale rifiuto dei segni di cui esso è costituito di farsi veicolo di un senso. L’operazione precluderebbe almeno in parte la comprensione del progetto; ma, pure, consentirebbe di valutarlo per la capacità, una volta eliminato l’apparato a esso sovrapposto, di dimostrarsi in grado di rispondere con mezzi architettonici a problemi architettonici. In tale –ipotetica– analisi di un’opera come il Danteum, risalterebbero tanto la proficuità quanto l’arbitrarietà dell’operazione di Eisenman, che fa come se la dimensione sintattica non fosse in relazione a quella semantica. Ora, per tornare ai progetti presi in esame nel libro: non è insostenibile la convinzione di Eisenman secondo cui la Casa del Fascio sarebbe analizzabile dal punto di vista della sua sola dimensione sintattica? Non si può, invece, presumere che la differenza tra le strategie progettuali della Casa del Fascio e di casa Giuliani-Frigerio abbia origine perlomeno anche in una diversa distanza da preoccupazioni di ordine semantico (rappresentativo, simbolico, politico, funzionale)?
Anche se fosse, l’operazione di Eisenman ne risulterebbe scalfita solo fino a un certo punto: nulla si sarebbe ancora detto contro la liceità di una “lettura” dell’architettura in chiave sintattica, nel momento in cui non finga di porsi come storica. E ne verrebbe del tutto disconosciuta la proficuità. In una certa misura, poi, proprio l’isolamento dell’architettura da qualsiasi forma di contesto –e quello, ad esso paralello e conseguente, della dimensione sintattica da quella semantica– risulta necessario ad Eisenman. L’analisi dell’opera di Terragni viene compiuta come in un laboratorio; ha il carattere di un esperimento, predisposto e condotto con metodicità, e che in quanto tale vuole essere descrivibile e ripetibile (come l’iter progettuale delle House I-X). Per compiere esperimenti validi, il campo deve essere circoscritto. A queste condizioni, e soltanto a queste, è possibile procedere rigorosamente –e tale consapevolezza è un merito che occorre riconoscere a Eisenman.
Quanto è, piuttosto, il caso di sottolineare è come una tale delimitazione del campo d’indagine sia di per sé storicamente determinata. La pretesa, da parte di Eisenman, di porsi in un punto di osservazione incondizionato è, infatti, altrettanto “antiscientifica” quanto la pretesa di un’autonomia disciplinare dell’architettura; e va certamente considerata in un quadro di natura storica. Non è però l’assenza della dimensione storica che può essere imputata ad Eisenman nella sua “lettura” delle opere di Terragni. Dall’esterno, la sua operazione, pur dotata di rara coerenza, è sin troppo facile da liquidare come un gioco raffinato ma elusivo, al limite irresponsabile. Si tratta, però, di un gioco non dissimulato e, anzi, ampiamente esibito. La stessa esclusione della dimensione semantica dall’architettura, in fondo, sembra costituire la lucida accettazione di un ineludibile status quo; e, in questo senso, risulta fortemente polemica soprattutto nei confronti dell’opera di colui che, forse, più ha contribuito affinché la cultura architettonica americana del Novecento si imponesse all’attenzione del mondo, ossia di Louis Kahn.
Quanto occorre sempre tener presente è l’anomalia di un’opera, come quella di Eisenman, costretta ad assumere come presupposto la propria coerenza e ad accettare di situarsi a un passo dall’irrilevanza. In questo senso, il libro su Terragni si presenta non solo come un’illuminante analisi di due opere architettoniche –che emerge con propotenza, se solo si considera l’afasia di cui è vittima la cultura progettuale contemporanea– ma come una lucida e consapevole operazione, capace di parlare a e di noi tutti.