Afferma di voler «descrivere prima di tutto», «magari annotare»:
«soprattutto contemplare e descrivere il fiume, oltre non mi era chiaro
che volevo fare». Per questa sua avventura umana e letteraria Paolo
Morelli si affida a un movimento dall’alto verso il basso, laddove la
vocazione a scendere cambia segno diventando risalita: di un fiume, di
un pellegrinaggio solitario che vede aprirsi a ventaglio (per chi sappia
raccoglierle) le possibilità date dalla discesa a piedi di un piccolo
corso d’acqua.
Racconto del fiume Sangro comincia proprio dall’idea di camminare
col naso all’ingiù, nel nome di un «guardare in basso» intrapreso per
evitare troppi compiacimenti. In questa «impressione che nel continuo
mirare e fallire stava la forza dell’esercizio» si consolida e
perfeziona una declinazione dell’osservare, dell’ascoltare. Nel percorso
che conduce il fiume abruzzese fino all’Adriatico si infila Morelli,
curioso di misurarsi con la forza e la potenza concreta, immaginativa,
dell’acqua. Ed è significativo che nel seguire a piedi il flusso di un
fiume, nel ricercarne le sorgenti, nell’individuarne tutta la serie di
piccole appendici (polle descritte come «spumose», «graziose», terreno
umido e asciutto, giravolte, anse, gole, solo per rendere un poco la
sostanza del libro), sia possibile rintracciare un percorso, uno sguardo
orientato. Utile anche per intercettare il carattere del fiume.
Quando la materia sfugge, scivola via, come l’acqua stessa, più salda si
fa la capacità di Morelli di trattenerla, rapirla all’indagine, al
ragionamento. Sottrarla alla divagazione confusa, distratta. Perciò è
chiamato «racconto», quello del fiume Sangro. Perché ogni pagina procede
come un racconto, con la descrizione di un particolare bordo del fiume,
o la modalità con la quale l’acqua fuoriesce dal sottosuolo, illuminata
dai raggi di un sole che le regala «striature mobili e irregolari, come
disegni sul manto di una tigre che crollano appena disegnati». Nel
vagare dell’autore intorno a questo corso d’acqua, nella restituzione
sulla pagina di dati orografici mischiati a un’evidente attitudine
letteraria, in questa calata un po’ folle verso il basso, quella «forza
dell’esercizio» che si diceva prima diviene un gradiente della
perfezione: pare impossibile, ma si individua un percorso, nel seguire i 122 chilometri di questo fiume che nasce nel Parco Nazionale.
E alla fine è questo, un percorso, quanto di più prezioso possa
essere contenuto in un libro, l’unico indice interiore da tenere a mente
per mantenere dritta la rotta. Ed è a mio parere da sottolineare come
questo sia avvenuto mettendo al centro della narrazione un argomento
così poco narrativo. Soprattutto giunto dopo l’ultimo lavoro pubblicato nel 2010, Il trasloco (nottetempo),
in cui la divagazione non raggiungeva questa precisione fisiologica
data dalla necessità. È a questo livello che saggezza e intuizione,
cultura e ignoranza si fondono. Nel nascere e morire di un fiume, «da
tempo immemorabile», nella fuoriuscita dell’acqua senza sforzo, o con
impeto, nella mezza delusione di chi si guarda intorno «sapendo di
doversi fare bastare qualcosa», è fissato un nucleo di autenticità che
tiene per tutte le 210 pagine, per brillare con grazia e semplicità
quando ci si ricongiunge con il mare.