In Italia lngeborg Bachmann abitò, negli ultimi venti anni, a Forio
d'lschia, poi a Napoli, infine a Roma, dove quaranta anni fa, il 17
ottobre, in circostanze mai del tutto chiarite (prese fuoco il suo letto
forse a causa di una sigaretta lasciata accesa), moriva per le gravi
ustioni, ad appena quarantasette anni.
«L'Italia non è più meta di pellegrinaggi. La mia non è stata un'esperienza italiana», scriveva. La scrittrice austriaca di Malina,
il romanzo che nel 1971 le procurò fama tardiva di autrice di
best-seller, dal luglio 1954 al giugno 1955 spedì da Roma una serie di
corrispondenze italiane, cronache politiche e di costume per la radio di
Brema. Le pubblica Quodlibet in un tascabile Quel
che ho visto e udito a Roma (124 pagine, 11 euro con la
prefazione di Giorgio Agamben e una nota di Jörg-Dieter Kogel), che è
poi il titolo di una breve, fulminante fotografia di Roma, in alcune
scene e luoghi ufficiali e non, che stimolano.
Una città evocata «con tocco surrealista leggero e vagante», le fioraie e
la puzza di pesce a Campo dei Fiori, le acque del Tevere «verde argilla
e biondo», il «broccato nero» delle case patrizie, la luna su Fontana
di Trevi, la cupola di San Pietro più piccola del reale «e tuttavia
troppo grande».
Una città che è «l'ultima in cui si possa avere un sentimento di patria
interiore», in cui però resta «questo incomprensibile senso di patria»,
scrive in una delle sue cronache radiofoniche.
La Bachmann, che conosceva perfettamente la nostra lingua, segue in
questi appuntamenti periodici, per quasi un anno, gli scandali sociali e
politici e gli eventi anche minimi nell'ltalia degli anni Cinquanta.
Si va dal caso Montesi alle manovre delle mafia, dal trionfo della Lollo
a quello della 600 Fiat, dalle tragedie naturali che si ripetono con
troppa frequenza all'inagurazione della metropolitana
nella capitale.
Sono spesso le mutazioni del costume, le imposizioni di mode culturali,
la paranoia dell'inesauribile chiacchiericcio politico (con l'«immagine
dell'idillio sonnacchioso» nel dibattito parlamentare!) che l'elastico
della scrittura, legata all'occasione della sua oralità radiofonica,
modella e organizza su registri insieme leggeri, pietosi, anche
spietati.
E si variano i toni. Ora il tono aforistico, ora quello più disteso nella qualità affabulante dell'apologo.