Recensioni / Quegli anni all'Einaudi. Ricordi dal ventennio che ha cambiato tutto

Il libro di Luca Baranelli e Francesco Ciafaloni "Una stanza all'Einaudi" (a cura di Alberto Saibene, Quodlibet, 153 pp., 14,50 euro) è un libro imbarazzante e anche doloroso per chi è nato fra 1930 e 1950, perché può suscitare un sentimento di cui non si sa che cosa fare e che quasi sempre ci si vergogna di esprimere: la nostalgia politica. Non si può rimpiangere un periodo, come gli anni Sessanta, di conflitti radicali, guerre interminabili come quella del Vietnam, stragi e colpi di stato minacciati o realizzati, di ipotesi politiche illusorie. Tutto sembrava nuovo. Eppure era come se gli anni Venti, Trenta, Quaranta e Cinquanta, non fossero mai finiti, con le loro utopie, avanguardie e attese rivoluzionarie.

Leggo o rileggo ora le interviste e le testimonianze di Baranelli e Ciafaloni (che conobbi nel 1975 a Quaderni piacentini), allora entrambi redattori alla Einaudi, i quali scherzosamente ma non troppo (si ironizza su ciò che si teme) venivano definiti, forse dallo stesso Giulio Einaudi, "l'ufficio politico" della casa editrice. Sebbene la loro autorità e il loro potere fossero limitati, Baranelli e Ciafaloni avevano in delega, dal 1968 in poi, di cercare i libri che rappresentassero meglio il punto di vista, le esigenze e i problemi dell'allora Nuova sinistra. Nella collana "Serie politica", che esibiva una poco felice copertina viola, venivano pubblicati libri sulla Fiat e sulla Cina, sull'America latina, l'Africa, il Giappone, l'est europeo, l'agricoltura in Italia o a Cuba, il conflitto arabo-israeliano, i movimenti studenteschi, la politica estera e interna americana. Alcuni di quei libri, più che leggerli li ho studiati. Nell'editoria trionfava la saggistica sociologica e politica. Erano anni in cui ci si vergognava della letteratura, gli autori di romanzi e poesie, quei pochi che c'erano, si nascondevano o lavoravano sottobanco.La nostalgia politica che ho evocato non riguarda i contenuti, i fini conclamati, le strategie e le proposte politiche di quella che veniva denominata "contestazione del sistema": riguarda il fatto che si fossero trovate molte buone e ben documentate ragioni per parlare di sistema capitalistico e imperialistico, per illustrarne e contrastarne il funzionamento microsociale e globale, per farsene un'idea d'insieme, spesso semplificata, ma altrettanto spesso realistica. La nostalgia riguarda II modo in cui si accumulava cultura per fare scelte politiche; riguarda un mondo di ventenni e di trentenni il cui istinto e programma di vita era andare controcorrente, cercando di capire secondo quale logica si muoveva sia la vita sociale quotidiana che la politica internazionale.Quel tempo è finito e dimenticato da un pezzo. La "società nuova" che si cercò di capire fra il 1955 e il 1975 non fu più nuova con l'inizio del decennio successivo. Bisognava osservarla di nuovo, da vicino e con i propri occhi, mettendo da parte molte idee generali. La Nuova sinistra dopo dieci anni era rapidamente invecchiata, intossicata dalle frasi fatte e dal tradizionalismo estremista, e finì in terrorismo o in accademia. Da un anno all'altro ci si ritrovò individualisti. Ma non tutti gli individualismi si somigliano. Ci fu quello di chi si tirò indietro e quello di chi puntò alla carriera.Sia Baranelli che Ciafaloni, oltre che attivi all'Einaudi, collaboravano e partecipavano alle riunioni (molto informali) di Quaderni piacentini. Quando nel 1984 Piergiorgio Bellocchio decise di chiudere la rivista, direttori e redattori smisero quasi del tutto di frequentarsi, rimasero solo le vere amicizie, o gli ambienti universitari e politici. Ma sono andato piuttosto fuori tema. Questo libro di Baranelli e Ciafaloni non è tanto un libro sulla politica di quegli anni. è un libro sul lavoro editoriale all'Einaudi. Alla resa dei conti Baranelli, riconsiderando la vicenda della collana di cui si occupò per anni, dice che "col senno di poi' la cosa più interessante non fu il progetto d'insieme, erano i libri "nella loro singolarità, nella tenuta o debolezza culturale di ciascuno". Su alcuni di quei libri si contava molto e invece nessuno sembra averli visti né letti. Altri, che invece sembravano secondari, hanno suscitato interesse e discussioni.

Nel libro si parla di molte circostanze, persone, divergenze e incomprensioni. Continua a fare storia "il caso Fofi" del 1963: la sua inchiesta sull'emigrazione meridionale a Torino venne proposta e sostenuta soprattutto da Renato Solmi, H primo traduttore di Adorno e Benjamin, e Raniero Panzieri, H fondatore dei Quaderni rossi (ma non mancò l'assenso del grande musicologo Massimo Mila) mentre la maggioranza, dopo ripetute oscillazioni, respinse il libro (che uscì da Feltrinelli) come un imprudente e dannoso attacco sia alla Fiat che al sindacato e alla città di Torino. Solmi e Panzieri vennero licenziati. Fu lo scontro più traumatico all'interno della casa editrice e rimase come un rimorso e un rimpianto nella memoria dei due massimi dirigenti, Giulio Einaudi e Giulio Bollati, da allora sempre più distanti e in disaccordo.

Ma nella memoria e nella ricostruzione di Baranelli e Ciafaloni la cosa che colpisce di più è la vera e semplice passione per H lavoro editoriale come impegno non solo politico, ma morale e professionale; sono i ricordi delle qualità umane di Calvino, Elnaudi, Bobbio, Sergio Caprioglio, Roberto Cerati. Nell'intervista con Alberto Saibene, a un certo punto Baranelli dice che "l'orgoglio aziendale e la prosopopea einaudiana" non gli appartengono. Chi lo conosce sa che è così. Eppure, non l'orgoglio, non la prosopopea, ma l'amore per quel lavoro, in quegli anni e in quella casa editrice, si sente in tutti i suoi ricordi.