Cosmologia portatile, il libro in cui Italo Rota, maestro
dell’architettura e teorico, presenta la sua visione sull’arte di
costruire, è interessante per due ragioni: da un lato rappresenta una
sintesi del suo pensiero, prospettato nei singoli capitoli, e dall’altro
è un ottimo strumento per muoversi attraverso le varie diramazioni
della sua idea di architettura, spostandosi da un capitolo all’altro
(Atlante dei disegni compreso), seguendo le proprie curiosità. In tal
senso è un libro dinamico, che non si limita a suscitare dubbi o quesiti
o a dare risposte, ma che aiuta il lettore a trovare delle strade
possibili, spingendolo ad avventurarsi in un territorio complesso e
affascinante.
Cosmologia portatile è un libro utile a chi si interroga su alcune
questioni cruciali del dibattito sul progetto. Uno di quei libri che non
si abbandonano mai, come L’architettura della città di Aldo Rossi o
Delirious New York di Rem Koolhaas. In ogni capitolo Rota mette sul
tavolo tutta una serie di questioni e propone le sue idee, sempre
originali e non di rado provocatorie, parlando di architettura anche
indirettamente, evocandola, facendo riferimento a temi apparentemente
lontani. Ed ecco allora che il filo conduttore si snoda dagli “Interni
informi” alla “Rimagicizzazione del mondo”, passando per un
appassionante excursus su “Sarcofagi e astronavi”, delineando una teoria
da opera aperta, con vari finali possibili. Completa il volume, curato
da Francesca La Rocca, autrice di un bel saggio introduttivo, l’“Atlante
dei disegni”, dove le immagini realizzate da Rota con il mouse offrono
altri spunti per perdersi nei territori del progetto contemporaneo.
Tra le pagine del libro affiora a intermittenza il concetto di “casa”
secondo Italo Rota. E a un certo punto la casa viene definita “un
garage-palcoscenico”. Lo spazio domestico è quindi uno spazio in cui
rappresentarsi o uno spazio più intimo da vivere da soli?
E’ entrambe le cose. Con le varie libertà che stiamo conquistando,
vivere da soli non vuol più dire stare in solitudine. Per questo è
importante avere una parte tutta per sé nella casa, che resta un
palcoscenico per confrontarsi con gli altri ma che è rappresenta anche
un luogo in cui lavorare e pensare. Quest’ultima accezione è
significativa in un periodo in cui il “tempo libero” di una volta è
stato soppiantato dal “total time”, che tra l’altro ha comportato la
sparizione degli “hobby”.
Lei dice che “l’assenza di progetto è forse il peggiore di tutti i progetti”. Ma oggi la città può essere ancora disegnata?
L’assenza del progetto è dovuta al fatto che non si riesce più a
progettare: ci sono una serie di regole che configurano la città. Non
c’è più spazio per il progetto. Questa summa di regole sparisce soltanto
nella grandissima scala, nella “Bigness” di cui parla Koolhaas.
I musei e le opere che contengono sono uno dei temi trattati nel libro.
Si dice che non è più necessario esporre gli originali. Perché?
Col passar del tempo siamo arrivati a compiere delle visite rituali
svuotate di ogni significato. Basta pensare alla sala della Gioconda al
Louvre: il vetro che protegge l’opera diventa una barriera per lo
spettatore, che ha pochissimo tempo per ammirare il dipinto e vede una
moltitudine di persone riflesse nel vetro protettivo. Allora, per
conoscere veramente un’opera, o si punta sui quadri che non vengono
presi d’assalto dal grande pubblico, oppure si espongono riproduzioni
digitali ad altissima definizione che permettano di cogliere ogni minimo
dettaglio. In definitiva, in questo modo si realizza in positivo l’idea
di Walter Benjamin sulla riproducibilità dell’opera d’arte.
E’ una delle applicazioni della tecnologia a favore dell’arte, un discorso che riserva ancora molte sorprese…
Qualche esempio interessante c’è già stato: penso all’interpretazione di Greenaway dell’Ultima cena di Leonardo.
Nel libro si dice che presto potremo vivere in luoghi pienamente condivisi. Che cosa intende?
Mi riferisco più che altro a luoghi riconosciuti come punti di incontro
da collettività trasversali. Comunità che fanno esistere quel luogo –
che magari non c’è fisicamente- grazie alla diffusione di immagini che
documentano un incontro o un evento.
In Cosmologia portatile si dice che l’architettura si deve adeguare a
nuovi tipi di corpi e a una nuova corporeità. Che cosa significa?
Intendo dire che si comincia a pensare l’architettura facendo
riferimento a persone molto diverse le une dalle altre, che non sono
necessariamente simili all’uomo leonardesco o a quello del Modulor di Le
Corbusier. Perché tutti i fruitori dell’architettura dovrebbero avere
lo stesso corpo muscoloso e lo stesso sorriso ebete dei modelli usati
per i trattati dell’arte del costruire? Di tutte le persone più
interessanti della storia dell’umanità, nessuno rientra in quei canoni.