Non è un caso che, finito di leggere Camminare di Thoreau, sessanta
mirabili pagine sul vagabondare, mi incontri con il racconto di Paolo
Morelli. “Finalmente”, scrive Morelli, “ho messo in
pratica un’idea che avevo da anni: contemplare l’acqua, e in particolare
quella di un fiume, più in particolare quella del fiume Sangro,
seguendo per giorni il suo corso a piedi, passo dopo passo”.
Un viaggio in solitaria è sempre, in qualche modo, un viaggio
iniziatico. Taccuino alla mano e una busta di plastica per ripulire le
sponde dalle immondizie, l’autore costeggia un fiumea cui è
particolarmente legato dai ricordi, fili rossi lanciatici da bambini che
da adulti corriamo a riprendere.
È un lunedi pomeriggio. Morelli scende dall’autobus nel cuore del Molise
e, per quasi dieci giorni, entra nel microcosmo del fiume – si
flumentizza – e l’acqua fa da riflesso ai suoi liberi pensieri.
Racconto nel racconto, l’autore ci trasmette inoltre bagliori della sua
lettura personale, cita Harrison, “la vita esiste dove il dare eccede il
prendere”, e la natura, si sa, è a senso unico nel
dare, pensiamo solo a quell’antichissima pratica taoista legata
all’abbracciare gli alberi. E ancora, “I giardinieri dicono che l’acqua
ha la proprietà di tenere in sé la memoria di quello che è stata,
ghiaccio o neve, per esempio. [...] Se la conservate fino all’estate e
poi la date alla terra, porta il messaggio freddo, utile in certe
coltivazioni e forse anche piacevole per le piante accaldate”.
Durante il corso della lettura i protagonisti vengono personalizzati,
lui è il fiume (e lei è l’acqua, “il simbolo oscuro dell’umiltà
pragmatica, il fiume la porta dove si deve andare”) e il suo compito è
quello di scendere a valle, un andare intelligente il suo, ma “quando e
come ci si deve fermare e il non-fare è importante almeno quanto il
fare”.
Le diverse voci del fiume fanno eco al carattere dell’autore, ai suoi
silenzi, ai gorgoglii, al borbottìo del vento, agli ostacoli di ogni
genere che improvvisamente appaiono, alla mitezza dei laghi
artificiali pronti a registrare ogni soffio di vento. Tutte queste
sottili sensazioni rimandano l’autore al fascino – da lui sempre
corrisposto – per l’eremitaggio, le notti passate in una
pensione/rifugio non troppo lontano dal fiume, le trattorie di
passaggio, la nebbia che si dirada, l’acustica dei piccoli canyon,
l’incontro con i cavalli bradi, l’orda di cani aggressivi, “bastardi di
nome e di fatto”.
Più volte si sofferma a descrivere le confluenze e le immissioni degli
affluenti, fino a commuoversi, mettendo in luce il rapporto di
sottomissione del “piccolo” rispetto al “grande”, soffermandosi sulle
fasi sapienti di lentezza. “Il fiume lui nel suo complesso”, scrive
Morelli, “continua a sembrarmi uno che ha fame di ritardare proprio
perché sa che non è possibile, è in questo fallimento forse l’aspetto
irridente che conserva sempre con diverse sfumature, eventi differenti,
una cosa è viva se deve finire, tanto vale allora prender tempo”. Mentre
leggo, mi immedesimo nella scena, divento invisibile, muto compagno del
viandante/scrittore.
Quando il fiume poi, a testa alta, si avvicina alla foce, “visibilio
della fine”, il protagonista ha ormai introiettato la propria
sangritudine e con quella si confonde. Mi pare di ascoltarlo, Paolo
Morelli, la sua voce baritonale dall’elegante dizione che corre – senza
punteggiatura – lungo una corda tonale tesa, monotòna e fascinosa,
mentre scandisce, come il fiume, la misura del procedere, “così alla
fine ci si accorge che si va avanti, si imparano le pause mentre si
scorre”.