Nei confronti di Franco Fortini, la cultura italiana ha scelto la via
della rimozione. Per esorcizzarne l'opera, se ne è creata un'immagine
stereotipata. ll Fortini poeta - proprio lui, il pubblicitario estroso -
è stato accusato di scriver versi per mera forza di volontà, senza
talento; e oggi alle sue liriche ci si rifiuta di assegnare il posto che
meritano accanto a quelle di Sereni, Pasolini o Zanzotto; Il fatto è che
il medio letterato italiano vi cerca invano ciò che lo rassicura: il
lirismo (post)ermetico, il cronachismo o l'idolatria del Linguaggio.
Fortini invece, con le sue allegorie composte e atroci, propone un'arte
retorica straniante ma nitida, ricca di stratificazioni ma priva di
aloni, e raggelata da un rigoroso scavo razionale: cioè una poesia che
esige un difficile esercizio d'intelligenza. Se al poeta va male. non
meglio va al saggista, considerato il pedante glossatore di un'ideologia
che tramontando lo ha reso incomprensibile.
Si dimentica che se i suoi discorsi sono ipotecati dal mito di un Futuro
Rivoluzionario, la sua dote peculiare sta poi nell'affiancare al mito
una sensibilità straordinaria per la complessità presente dell'individuo
e delle sue espressioni estetiche, difese da ogni politicismo volgare.
Certo, il suo destino Fortini se lo è in parte cercato: ostinandosi a
tenere acrobaticamente insieme marxismo e alta cultura, mentre le loro
sorti si separavano in modo irreparabile. Ma la sua sfortuna dipende
soprattutto dal fatto che ha combattuto sempre su un doppio fronte:
troppo «letterato per i politici» e troppo «ideologo per i letterati»,
ha sferzato sia i populismi engagé di chi vende alle masse arte e
teoria annacquate, sia il formalismo di chi crede che arte e teoria non
rimandino ad altro da sé. Il ceto intellettuale ha visto presto che
c'era in lui «qualcosa di minaccioso».
Così scrive Luca Lenzini in Un'antica promessa (Quodlibet), raccolta di
studi fortiniani che offre un ottimo antidoto alla rimozione. Lenzini
nega che per interpretare Fortini occorra immergersi in polverose
dispute sul comunismo. «Mentre non si può fare a meno di Dante e della
Bibbia», dice, «non è poi indispensabile avere accanto Rousseau o Marx»:
e lo prova chiosando con minuzia i testi del suo maestro.
lnteressantissimi sono i brani sul Fortini giovane, che si dedica a una
narrativa «fantastica» incentrata su «Arte-Eros-Thanatos». La
metamorfosi avvie-
ne con la guerra. È da allora che convivono in lui due diverse anime
romantiche: da un lato ragiona sulla tragica, kierkegaardiana solitudine
individuale, e su una speranza utopica evocata per via negativa o
paradossale; dall'altro lato, s'impone una tensione quotidiana verso la
collettività.
Sulla dialettica tra coralità e isolamento si regge già l'esordio poetico di Foglio di via
(1946), in cui si trova buona parte dei registri sperimentati nelle
raccolte successive. Subito dopo, Fortini scrive i saggi di Dieci inverni
(1957). Il cuore del libro sta nella critica ai politici e agli
intellettuali di sinistra, accusati di chiudersi nelle oligarchie
«partitiche» e «umanistiche», indisposti ad applicare a se stessi
l'analisi marxista usata contro gli avversari, e pronti a passare dallo
stalinismo a un antistalinismo altrettanto dogmatico. Ma c'è un altro
tema, che rivela l'anima tragica
fortiniana. Fortini deplora la rimozione comunista del male naturale; «l
minorati psichici, gli asociali (...) quale posto occupano nella
antropologia marxista?». Ovunque, nota Lenzini, va a caccia del «rimosso
sociale», e «strappa» la maschera alle ideologie. Così fa anche davanti
alle opere dei colleghi, per alcuni dei quali diventa un cruciale
interlocutore-antagonista: si pensi a Sereni, a Calvino, a Pasolini.
Mentre gli ultimi due passano dal marxismo anni 50 ai fasti
dell'industria culturale, l'«ospite ingrato» li critica esaminando
questa industria con spietatezza.
Di qui nasce Verifica dei poteri (1965), raccolta di saggi
sospesa tra cupezze adorniane, riflessioni lukacsiane sull'eredità
borghese, ed elogi della schematicità alla Brecht. Ma Verifica è
soprattutto un libro benjaminiano, peri toni apocalittici e la
pietrificazione dello stile. Questa aspra forma letteraria dura fino a
quando, negli anni 80, scompare il movimento politico destinatario di
una saggistica d'ntervento a medio termine.
La scrittura di Fortini vira allora verso il trattato, o si rapprende in
un rapido, nudo autobiografismo. Male sue pagine conservano alcuni
tratti inconfondibili: l'alternarsi di tour de force dialettici e
lapidari aforismi; l'oscillazione tra esame di coscienza e appello, exemplum
e scorcio lirico; e soprattutto i collegamenti fulminei tra i piani più
diversi del reale. Non a caso, nota Lenzini, la matrice dell'opera
fortiniana è il «journal», il «luogo archetipico dell'eterogeneo del
discreto»: fatto da non sottovalutare, per chi voglia accostarsi senza
esorcismi a questo scrittore in apparenza così «composto»,e incline a
inibirsi ogni espansione soggettiva.