Recensioni / La Roma di Ingeborg Bachmann

Se si vuole parlare di libri attraverso altri libri allora la fine di questa storia sta tra Ellroy e Pynchon, con una donna straniera di soli 47 anni finita ustionata al Sant'Eugenio, uno dei tanti ospedali romani dall'aria fatalmente familiare, per una sigaretta lasciata accesa nel sonno. Non è una leggenda la morte distrattamente maudit di Ingeborg Bachmann, l'abuso di alcol e sonniferi aveva abbassato le soglie del dolore. A ottobre, il diciassette, saranno passati 40 anni dal giorno della sua scomparsa. L'inizio di questa storia però è altrove, sotto il segno dell'entusiasmo. Le cronache anni '50 di una ventenne austriaca inviata nella capitale per Radio Brema e un quotidiano di Essen, ufficialmente per cor­rispondenze politiche, raccolte e intitolate in "Quello che ho visto e udito a Roma" (Quodlibet, pp.128, €11), vengono prima di una stagione letteraria di stanchezze e sprechi dichiarati: prima dello scirocco insabbiatore di entusiasmi dei racconti de "La Giudia" di Sandro De Feo (Longanesi, 1963) e dei marziani indolenti di Ennio Flaiano (Einaudi, 1960), e prima ancora dei "Racconti ambigui"(1963, Feltrinelli) di Enzo Siciliano stretti stretti "in un ambiente di bagni turchi e di ricchi alberghi per straniera tipo Colony", ovviamente prima anche del tetro e comico "Pasticciaccio" (Garzanti, 1957).La celebrità le sarebbe piovuta addosso pochi anni dopo e dopo la celebrità sarebbe arrivato il glossario poetico tormentato e dolente. Ma in questo libro ambientato nella città dai pensieri grassi, dove "nessun gusto è sufficiente a creare distanza", la distanza salutare ce la mette proprio la giovane corrispondente. Chi aveva preso la sbornia esotica per Roma era il 35enne Leslie Fiedler da Newark, deluso dal mito di Parigi e arrivato inaspettatamente nella capitale nel 1952 con una borsa di studio Fulbright. La ventenne Bachmann invece aveva puntato Roma fin da subito abitando a più riprese a Piazza della Quercia, via Giulia, via Bocca di Leone dove “l’interno non era romano ma viennese” (come ricorda nella prefazione Giorgio Agamben). "Quel che ho visto e udito a Roma" non è insomma il classico resoconto di impressioni romane. Sono testi di cronaca, dettati con dimestichezza e precisione: c'è "l'idillio sonnacchioso dei dibattiti parlamentari", ci sono Scelba e i presunti tentativi di eversione da parte dei comunisti,  via Veneto e Cinecittà, le catastrofi in Campania e le manovre della mafia, ma soprattutto molte pagine dedicate al caso Montesi. Impietoso il rasoio della Bachmann quando racconta il riflusso dei protagonisti altolocati del celebre episodio di nera: "Questo è quanto resta di un palcoscenico che pullulava di cosiddetti esistenzialisti, idoli dei salotti, cavalieri d'industria, fanatici della giustizia, ministri, giornalisti e attori. Tutti sembravano essere seguaci di una vita 'libera, priva di pregiudizi'. Tutti mostrano oggi una tendenza sorprendente a diventare dei bravi borghesi. La speculazione politica tentata dagli estremisti politici italiani sulla scia del caso Montesi è dunque fallita. Nella borsa della propaganda romana le azioni del caso sono quotate zero". 
Alla fine del libro si trova il testo che dà il nome al titolo, è un denso riepilogo lirico della prima stagione romana della Bachmann. Doveva restarci due mesi, vent'anni dopo chiosava “non so più perché vivo qui". Avrebbe voluto essere sepolta nel cimitero dei protestanti. la famiglia scelse la natia Klagenfurt che “soltanto e unicamente uno straniero riuscirebbe a sopportare per più di un'ora". In pellegrinaggio sulla tomba andarono Uwe Johnson, Thomas Bernhard e Pier Vittorio Tondelli. Ma questa, appunto, è la fine della storia.