Recensioni / Cosmologia portatile

Avere una conversazione con Italo Rota sul suo libro è un po’ come stare dentro al suo libro. La voce, bassa, ti conduce lentamente dentro un flusso di cose e parole che può prendere direzioni inaspettate, potrebbe non finire, ha un insolito e felice rapporto con la pertinenza e la consequenzialità. È, felicemente, molto oltre.

Non era detto che questo flusso orale riuscisse a tradursi in pagine da incontrare come si incontra il loro autore: all’inizio, ma anche nel bel mezzo, o addirittura alla fine di una concatenazione di pensieri. Ci si trova, in ogni caso, circondati da un buon gruppo di parole, di fronte a un’immagine poco probabile o una nozione fuori dall’ordinario, dentro o fuori dal mondo dell’architettura (a tratti davvero lontani), comunque armati (dallo stesso autore) di strumenti che rendono l’orientamento facile e personalissimo.

 

In uno degli scritti raccolti nel libro racconta l’installazione artistica, la sua materialità e il suo esploratore: un viewer, un occhio con un corpo. Anche il suo libro sembra un’installazione, un mondo a sé in cui le regole, se si scoprono, si scoprono strada facendo, tra materia di immagini e materia di parole… lei come lo ha concepito, come pensa il suo lettore lo attraversi?

L’installazione va attraversata, usata dal corpo del visitatore, prima è un accumulo abbastanza organizzato di cose, ma la sua vita inizia quando il viewer la attiva, entrandoci. In questo senso è diversa dall’opera d’arte classica, autonoma, indipendente. L’installazione non può essere utilizzata in maniera impropria, come non può esserlo questo libro. La sua scrittura collagistica fa sì che ognuno degli scritti (qui pubblicati integralmente) sia smembrabile in parti che funzionano anche da sole. Ciascuno può tagliarle e rincollarle a modo suo.

L’altra cosa che lo rende vicino a un’installazione è che è fatto di ingredienti, materie, molto diverse. I testi hanno a che fare con l’architettura, ma anche no. Ho sempre considerato il mio lavoro di architetto come un lavoro da dilettante, ho realizzato tanti progetti è vero, ma l’architettura non è mai stata un’ossessione. Conosco la sua natura feroce, so il male che può fare, e che ha fatto, quella moderna in particolare. Nel dopoguerra, dall’università della Calabria a quella di Barcellona è stata coltivata un’architettura ripetitiva e auto-referenziale che ha asciugato ogni slancio creativo: la creatività si è spostata prima verso la moda e il design, poi verso nuove tecnologie e l’architettura se n’è rimasta lì come una cretina, tutta cemento e ferro, chi va fuori qualche metro in più, chi torna endré…poca roba. Mentre quelli, tra gli architetti, che credono di aver instaurato una relazione proficua con la tecnologia, sono ancora lì a pensare che una stampante 3D possa cambiare il mondo… È, da tempo, un problema di super intelligenza, di persone sprovviste di talento creativo ma dotate di una notevole intelligenza speculativa, organizzativa, accademica che dovrebbero impiegare diversamente invece di ossessionarsi a costruire – un nome per tutti: Gregotti. Un altro problema dell’architettura è che gli storici, da tempo, non studiano più i documenti originali dell’architettura del XX secolo, continuano invece a lavorare solo sui testi di critica…e questo è quantomeno riduttivo.

Un’altra sensazione che viene dallo stare tra le sue pagine è quella di sentirsi sopraffatti, un po’ come in India: quantità di colori, odori, di informazioni e di impressioni. Poi il flusso è ben diretto dunque non c’è la sensazione di perdersi… ma, ugualmente, ci si ritrova a chiedersi, come accade che qualcuno arrivi ad accumulare nozioni così diverse, in direzioni così diverse, nel dettaglio. Dalla casa di Freud alle montagne del Tibet, dai riti di fondazione romani o indiani ai silex (primi coltelli di pietra) ai videogame… Da quale angolazione si mette a guardare il mondo e tutte le porzioni insolite che ne via via va inquadrando?
L’India è la moltitudine degli umani, è quando un’enorme quantità di umani costituisce il paesaggio, non c’è l’orizzonte che troviamo nel mondo latino…
Perché conosco, incontro, tante cose in direzioni così diverse? Forse perché non ho obblighi di sorta, non sono uno storico, non sono un docente e sono in linea la nostra epoca: prima c’è stato l’affastellarsi delle immagini, poi delle suggestioni, ora c’è l’affastellarsi delle sources (“sorgenti” o “fonti”, non so neanche se c’è una traduzione corretta in italiano). Le espressioni più compiute di un buon rapporto con la conoscenza oggi mi sembrano certi documentari, come quello bellissimo di Herzog sulle Grotte di Chauvet (vedi A531, ndr), che hanno un filo molto più forte di ogni possibile coerenza narrativa. Nel film si arriva alla conclusione che non ci sono rappresentazioni di uomini e di donne nelle grotte perché, avendo bisogno di luce per lavorare, gli uomini vedevano già le proprie figure proiettate come ombre sulle pareti di pietra, c’erano già, in qualche modo… Ecco, invece di stare a dannarsi l’anima nel tentativo di scoprire se fossero religiosi o meno, o altre inutilità del genere, questo dettaglio pratico, questa piccola scoperta, può aprire tutto un mondo di riflessioni…

A partire dal titolo – cosmologia portatile – passando per espressioni insolite ed efficaci, come “sottomondo della coscienza” o rimagicizzazione, il libro vive di una scrittura sempre accesa, puntuale, mai affettata… Qual è il suo rapporto con la scrittura, con le parole, come lavora per combinarle? A volte sembrano disegni…
Scrivo in economia, non è il mio mestiere. La mia non è una scrittura descrittiva, dico in poche parole cose che potrebbero riempire pagine, è una scrittura che sottintende, condensa. Sulla storia della nascita di Roma, ad esempio, potresti scrivere dei tomi, ma non sono un archeologo, non uno storico, non sono un pettegolo della storia, né uno scrittore, appunto. Ma penso che oggi possiamo imparare molto della letteratura, credo che ci siano molti nuovi, giovani e bravi scrittori negli ultimi anni in Italia. E la gente, magari non su carta, ma non smette di leggere. Mi piace immaginare le immagini generate dalla scrittura.

E i disegni? Tra i testi della prima parte e l’atlante dei disegni ci sono corrispondenze continue…
I disegni me li hanno chiesti per il libro, li ho fatti tutti di notte, dopo le undici. Sono disegnati con il mouse, con una sorta di distanza clinica. Ci sono ritratti di persone che ho incontrato, che poi si sono trasformati in personaggi o semplicemente personaggi come quelli della storia di Roma che sono costruiti in corrispondenza dei testi.

Può farmi la parafrasi di questo, al di là del fatto che rappresenta i tre nomi – Amor (nome segreto), Flora (nome sacrale), Roma (nome pubblico) – della città di Roma?
Roma è una maschera, è quello che vedi. Ne ho disegnate tre per i suoi tre nomi, ognuno scelga quella che vuole. La terza è la più esplicita: è come Roma appunto, è un gran troiano. È la sede del Vaticano. L’Italia è così com’è perché è il dominio fisico, l’estensione di uno dei più grandi poteri del pianeta. Persino il design italiano degli anni ‘50 e ‘60 non è spiegabile se non come produzione strettamente legata al lusso della chiesa, poltrone rosse, gioielli… Poi c’è stato il cinema, Fellini e le sue sfilate per i vestiti dei cardinali. E questo stesso lusso è all’origine di molte delle cose belle che facciamo oggi. Tutto sommato preferisco queste influenze a quelle rinascimentali: il Rinascimento era un’epoca noiosa, ininteressante, in cui un signore muscoloso non smetteva di agitarsi tra la forma di un quadrato e quella di un cerchio…

 

“La casa è una protesi. A volte la metti, a volte la togli”. Oppure, altrove nel libro: ” La casa è il nostro angolo di mondo”…
Io non ho casa, o meglio, non mi sento mai a casa, giro per il mondo, libero di vederlo ogni volta in maniera diversa. L’idea della protesi nasce dall’amore che avevo, fin da ragazzo, per l’astronautica, mi ha sempre intrigato il fatto che si vada nello spazio dentro questi portentosi rivestimenti…
Ho progettato una sola casa in tutta la mia vita, quella di Cavalli, perché era l’unica che mi sentivo di poter cucire letteralmente addosso a coloro che l’avrebbero abitata. Per il resto bisogna spingere le persone a farsi le proprie case da sé, a riempirle delle loro perversioni. Le case disegnate dagli architetti non hanno più senso. Con quei loro patetici intenti “curativi”, che proprio non mi interessano…

Il suo rapporto con il tempo? Dai sarcofagi (vedi A527) a quel corpo che nei tanti viaggi del suo libro non perde mai centralità…
Il tempo è semplicemente il fatto che non posso più permettermi di fare una cosa e, d’altro canto, mi si aprono possibilità di farne altre. È quando il corpo non ti sta più dietro… ho sempre arrampicato, ad esempio, poi un giorno sono sceso, mi sono messo a ridere e ho capito che quella storia era finita, semplicemente.

Scrive: “L’architettura è la piu libera delle arti, liberiamola!”. E ancora: “L’architettura è una strana bestia, non si adatta mai alla vita”. Che bestia è se può descriverla, e da quali gabbie è più urgente tirarla fuori?
L’architettura è feroce, l’architettura incombe, suscita il gesto primario di schermarsi, di opporre le mani, di proteggersi. Poi magari ci entri, riesci ad abbassare la guardia, ma l’architettura resta incombente, il tetto è il vero problema. Lo spazio chiuso ti tira fuori tutto dalla mente, il disagio, il disagio ambientale avviene sempre in ambito costruito, non può mai avvenire all’esterno. Muri e spigoli, le persone anoressiche, ad esempio, possono parlare dei loro problemi solo quando sono incastrate nello spazio costruito. È il destino dell’animale umano.
Un’altra caratteristica inquietante dell’architettura è il suo essere astratta, ma non come lo è la musica, che puoi interiorizzare e fare tua, l’architettura è fatta da poche persone, ci sono meno architetti che artisti.
Come liberarla? Le nuove tecnologie forse, non è necessario costruire per creare spazio, e del resto non possiamo più permettercelo. Oggi, i giovani che studiano architettura devono costruirsi una libido che non ha niente a che fare con lo scavare un buco e costruire le fondamenta. Lo spazio è chiuso bisogna liberarlo.

Si può insegnare questo nuovo approccio all’architettura? Come?
Ci sono dei momenti in cui insegnare è come leccare un lecca-lecca, era così negli anni ‘70 e ‘80 perché non potevi, non avevi nessuno strumento, per detenere le responsabilità reali che erano in mano alla politica, al mondo degli affari. Oggi il singolo è pienamente responsabile.
Io non insegno ma tengo workshop, una cosa che dico sempre agli studenti è di provare a stare un anno senza un’automobile, tentare di risolvere tutti i loro problemi senza un’auto di proprietà. È un modo per verificare il livello di efficienza del territorio, ma soprattutto, se non utilizzi la macchina ti si apre un mondo di creatività. È un esempio come un altro. Smettere di usare una cosa vuol dire usarne altre, magari inventarne altre. Le vecchie ricette non servono per le nuove malattie, e questo è molto liberatorio.
Poi ci son cose preziose che riconosco solo nelle nuove generazioni e in un certo senso mi fanno ben sperare per la loro formazione: non aver conosciuto Botta, non sapere bene cos’è il post-modernismo, o anche essersi dimenticati di Rem Koolhaas: tutto ciò può essere sano. Se hai vissuto intensamente di queste cose spesso non riesci a cogliere nuove idee, anche sensate, intriganti, che nascono ora, ben lontane da quei mondi…

Riemergendo dalla lettura del suo libro ci si potrebbe riscoprire più attenti all’intorno, passeggiare in un mondo ancora più pieno di oggetti, vivi, cui, come scrive, si infliggono costantemente, inconsapevolmente, umiliazioni… Come si muove tra le cose? Non sente un irresistibile bisogno di rimetterle al loro posto, lasciarle lì, inermi, silenziose?
Faccio un esempio: quando ero ragazzo ho ereditato un servizio di Sevres napoleonico, di quelli che potrebbero stare in un museo. L’ho sempre usato e oggi me ne rimane solo una tazzina, credo di aver buttato un sacco di soldi, ma ho sempre cercato di trasferire la qualità particolare del caffé bevuto da quell’oggetto prezioso nelle cose che ho progettato, anche se non ho mai tentato di riprodurre una tazza neoclassica! Gli oggetti vanno consumati, la vera umiliazione è mortificarli chiudendoli in una vetrinetta. Perdere qualcosa apre alla possibilità di trovarne un’altra. Non vale solo per le cose, vale anche per la natura. Non capisco tutto questo ossessionarsi a cercare di conservare le specie in via d’estinzione. È la tragedia del giardinaggio, e dell’agricoltura. L’estinzione di una specie può essere il trionfo della vita. Ci occupiamo solo di chi va scomparendo e non degniamo di uno sguardo tutti i nuovi biotipi che stanno emergendo. Oggi la natura si esprime soprattutto in miscrocosmi, unità potentissime di insetti e vegetali, biotipi che snobbiamo perché non hanno ancora quell’estetica classica diffusa e apprezzata nelle nostre visioni e nella nostra cultura.
Trovo miserabili gli argomenti del giardino e dell’agricoltura, attività umane e industriali in cui hai dei nemici, in cui giochi sempre sulla difensiva – i giardini nascono con delle recinzioni. La gente nelle metropoli invece, osservando le erbacce cresciute per caso nelle intercapedini dei marciapiedi, sta iniziando a coltivare un po’ ovunque per procurarsi qualcosa da mangiare, ecco la via di una possibile trasformazione per la città contemporanea

 

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