Più o meno a metà del suo viaggio in Grecia, il filologo e narratore
Dino Baldi giunge nell’ònfalos, il cuore di tenebra e di luce, di ogni
idea di classicità. Eleusi, il luogo del Mistero. Il luogo dei riti
tenuti più gelosamente segreti dell’antichità, il luogo che nei secoli
ha attirato irresistibile tutti coloro che Sono Alla Ricerca Di Qualcosa
(e, proprio perché non Sanno Bene Di Cosa Siano In Cerca, è qui che
vengono). Un luogo che delude le attese, naturalmente.
Oggi Eleusi, infatti, è il sobborgo industriale di Atene. Cioè il posto
più inquinato della Grecia: soffocato di cantieri, stabilimenti e,
tutt’intorno, «case tutte uguali stipate di antenne e di parabole». Un
luogo che – a differenza di tanti altri che, nello stesso paese,
ammanniscono al turista di massa «visioni di maniera che inquinano più
delle raffinerie» – neppure prova a fingere di aver restaurato la sua
antica, forse immaginaria identità.
E allora, conclude paradossale Baldi, «si sta proprio bene a Eleusi»:
perché «non c’è nessuno che ti dica come devi guardare le cose, e le
cose non ammiccano a una loro bellezza perduta». Un luogo perfetto per
Marina Ballo Charmet, insomma: «Quando vedo Marina che si muove fra le
pietre senza fare obiezioni, senza cercare niente né aspettarsi niente,
mi vengono in mente le foto di marciapiedi che mi ha fatto vedere prima
di partire, e mi pare che per posti come questo non ci siano occhi
migliori».
In generale la Grecia contemporanea, per la sproporzione fra il suo
passato assoluto e il suo presente quanto mai relativo (con una certa
cattiveria afferma Baldi che i greci di oggi «dovrebbero provare a
cambiare nome, come i figli d’arte che vogliono smarcarsi dall’ombra
sterile del padre»), è una perfetta macchina per disattendere le
aspettative. Non è un caso che sia appunto un greco di oggi, Jannis
Kounellis, l’artista ad aver dato l’interpretazione più spietata e meno
estetizzante, di quel passato, all’interno di Post-classici (la mostra, a
cura di Vincenzo Trione, chiusa il 29 settembre al Foro Romano):
frammenti di colonne e altri elementi architettonici sono disposti sul
terreno come a incorniciare un’immagine, un oggetto, un fuoco
dell’attenzione. Che ovviamente manca.
Ballo Charmet è la fotografa che, come in tutti i libri della serie
Humboldt ideata da Alberto Saibene e Giovanna Silva (Oracoli, santuari e
altri prodigi è il secondo della serie, dopo Narciso nelle colonie di
Vincenzo Latronico e Armin Linke), accompagna uno scrittore e compone,
in parallelo al suo, un proprio viaggio per immagini (nel volume c’è
anche un bel saggio di Marco Rinaldi, a ricordare il precedente di
Gastone Novelli: che negli anni Sessanta si confrontò a sua volta con la
Grecia contemporanea utilizzando entrambi i media, la parola e
l’immagine). E le fotografie della Grecia riprodotte nel volume –
Olimpia, Corinto, Epidauro, appunto Eleusi… – appaiono anche alla fine
del percorso allestito da Stefano Chiodi, al museo MACRO, col titolo
Sguardo terrestre.
Proprio Chiodi definisce «la città contemporanea», sin dai primi anni
Novanta oggetto privilegiato di questa fotografia (i «marciapiedi» che
ricorda Baldi), «una fabbrica di nulla»: «Cemento, granito, asfalto,
intonaco, ferro, polvere, sabbia, legno, erbacce, detriti, segni labili,
ottusi, uno sporco tenace». Sono questi gli elementi di una «strana
tavola periodica» che (senza però le pretese classificatorie dei suoi
grandi predecessori, Bernd e Hilla Becher) lo sguardo di Ballo Charmet
mette a nudo, con un doppio movimento: ingrandendone i dettagli – come
nell’apologo sulla fotografia di Michelangelo Antonioni, Blow-up – sino
all’informe, all’infra-ordinario, alla disgregazione materica; e
soprattutto abbassandosi, sin quasi al livello della superficie (con
quello che Jean-François Chevrier chiama «sguardo del cane», e che
l’artista preferisce definire infantile: in effetti la serie Primo
campo, del 2001-03, è dedicata – dolce e inquietante insieme: senz’altro
legata all’altro mestiere, di psicoterapeuta, di Ballo Charmet – ai
dettagli della pelle umana nella piega fra spalla e collo, dove cioè
riposa lo sguardo del bambino in braccio al genitore…).
Rispetto alla tradizione egemone della fotografia italiana – per esempio
rispetto a Gabriele Basilico, un cui seminario frequentato nell’87 fu
decisivo per la sua vocazione – il vettore di questa ricerca appare
diametralmente opposto. Lo dimostra il suo stilema più evidente, la
sfocatura: laddove in Basilico e dintorni il «tutto-a-fuoco» serve a
rendere «il visibile […] leggibile nella profondità» il continuo
ondeggiare del fuoco, nelle fotografie di Marina Ballo Charmet,
suggerisce che già la superficie delle cose sia «cieca, impenetrabile,
indecifrabile» (Chiodi). La stessa autrice dichiara che, nel
fotografare, a interessarla «non è la messa a distanza, il punto di
vista elevato, razionale, ma l’essere-nel-luogo, dove l’elemento del
controllo si allenta, entra in crisi».
È quella che il lessico psicoanalitico a lei più caro (Anton Ehrenzweig,
Salomon Resnik) definisce visione laterale, «periferica o distratta» (e
infatti la prima serie matura, del ’93-94, s’intitola Con la coda
dell’occhio; perfettamente in sintonia con lei, allora, è Dino Baldi
quando, durante il viaggio in Grecia, deliberatamente omette di visitare
il suo centro naturale, la capitale: «Ad Atene non c’è nulla
d’importante, non ci voglio andare»).
Ma c’è un ulteriore spaesamento, più sottile ancora, che induce il
lavoro di Marina Ballo Charmet. Me ne sono reso conto di fronte alla sua
opera (per paradosso) più «spettacolare», collocata sulla parete di
fondo della mostra al modo di un grande come-volevasi-dimostrare: il
trittico a colori Paris, Les Buttes Chaumont, del 2006 (dalla serie Il
parco, ambientata in altri spazi simili fra Parigi e Milano). Le tre
immagini – che riprendono persone sdraiate nell’erba a prendere il sole o
a leggere il giornale, più lontano dei bambini che giocano coi loro
genitori – hanno in comune gli stilemi cui il linguaggio di Ballo
Charmet ci ha abituato:
il piano della composizione è s-centrato dall’abbassamento della
prospettiva (sicché al centro dell’immagine non si trova il suo presunto
«soggetto», quello che ho appena descritto, bensì l’erba che si
frappone fra esso e l’occhio della macchina) e la sua superficie è
«macchiata» dal fuoco ondivago, che restituisce con precisione
determinate parti del piano «allontanandone» altre in tratti più
confusi. Ma a rendere totalmente s-paesante l’opera è soprattutto
qualcosa che in prima battuta percepiamo, invece, solo per via
subliminale. La successione delle tre immagini infatti (con un effetto
che in catalogo si perde, purtroppo) sembra, ma a ben vedere non è,
quella logico-spaziale rispondente alla nostra ipotetica percezione
«reale». Dalla collocazione delle persone nelle tre fotografie, quella
che si trova a sinistra (i bambini che giocano) in teoria dovrebbe
invece – per riprodurre la «panoramica», diciamo, del nostro sguardo –
stare a destra. Con questa semplice inversione dell’ordine spaziale,
esplicitando un procedimento che è in realtà all’opera in ogni singola
immagine, viene così messa in discussione l’implicita credenza
«narrativa» che, volenti o nolenti, attribuiamo alla fotografia nei
confronti della realtà.
Marina Ballo Charmet ha realizzato anche dei video, e parlando con
Chiodi delle proprie immagini metropolitane definisce i suoi dei
«fermo-immagine del nostro vivere e camminare nella città»: come se
appunto ogni immagine servisse a «fermare» l’immaginario, interminabile
film della nostra esistenza (secondo la stessa logica che induceva il
Pasolini di Empirismo eretico, negli anni Sessanta, a definire il cinema
la «lingua scritta della realtà»). Ma giustamente Chevrier ci mette in
guardia dal confondere «immagine fissa e fermo-immagine». Le singole
fotografie «con i procedimenti della ripresa cinematografica hanno in
comune solo l’esperienza della mobilità dello sguardo in un campo dato».
Eppure la disposizione in serie (come, in questo caso, in trittico)
delle immagini fisse, in una sorta di effetto Kuleshov della nostra
attenzione, ci induce ogni volta a metonimicamente narrativizzarle, come
appunto quando seguiamo un film. Così che l’infrazione di Ballo Charmet
– nei confronti di questa sintassi, incongrua e implicita quanto, per
lo più, strettamente vigente – ci turba in profondità. La sua non è
un’antinarrazione ma, più radicalmente, una de-narrazione: come chiama,
le sue, il poeta Mark Strand. L’illusione di coerenza lineare,
decostruita al proprio interno, fa vacillare il nostro senso del tempo,
la nostra collocazione nello spazio e dunque, in generale, il nostro
rapporto con la realtà.
Io stesso ho citato prima un celebre film. Ma è a un altro grande
maestro del cinema di quegli anni che mi fa pensare questo lavoro:
all’Alain Resnais che una volta – per spiegare le infrazioni all’ordine
diegetico di un film come L’année dernière à Marienbad – ricordò, o
inventò, che quando era ragazzino riceveva i fumetti delle sue serie
preferite direttamente dagli Stati Uniti. I fascicoli affrontavano un
viaggio lungo e travagliato, sicché poteva capitare che gli arrivasse,
prima del numero cui era giunta la sua lettura, quello ancora
successivo; o che d’improvviso apparisse un numero precedente di cui
s’erano nel frattempo perse le tracce.
Il viaggio dell’immagine – come quello nella terra che vive del proprio
passato – è una macchina per disattendere le nostre aspettative. O, come
definiva Borges il cinema quando è arte, un labirinto senza centro.