Recensioni / Eisenman: «Il mio Olocausto è ingombrante»

Fatemi fare un auto­grill!», disse l'anno scorso a Venezia Pe­ter Eisenman ricevendo il «Leone d'Oro» alla Carriera. «Non sono un intellettuale, so­no un architetto», aveva però già messo in chiaro a Roma, l'anno prima, mentre l'Università La Sapienza lo laureava, cum laude, ho­noris causa. Eppure lodi e ammirazione erano non a torto indirizza­te al teorico che, a colloquio con Friedrich Nietzsche, Noun Chomsky e Jacques Derrida, ha tanto a lungo riflettuto sulla filosofia dei segni architettonici, sulla se­miotica delle forme plastiche, la se­mantica dell'edilizia metropolitana e la grammatica dei pieni e dei vuoti che sorreggono e configurano un edificio.

E, se non la lettura, almeno la visione della sua autobiografia, un librone imponente come un edifi­cio ‑ costruito in quarant'anni di pensiero, pubblicato ora in Italia in seconda edizione mondiale e dedicato a Giuseppe Terragni, Tra­sformazioni, scomposizioni, criti­che (Quodlibet, pagg. 300, euro 70) ‑ lascia intendere quanto robusto e sottile sia l'impianto teorico che sorregge la sua idea di architettura. Ma Eisenman è, appunto, trop­po consapevole per non sapere che, alla fine, quelli che attraversano o abitano ogni architettura, che vi entrano ed escono, non pen­sano alle regole della sua gramma­tica, al suoi dispositivi retorici, o ai suoi suggerimenti filosofici più di quanto vi si pensi sostando in un autogrill.

Autogrill, anche volendo, l'archi­tetto tra i  maggiori viventi nel mondo, pluripremiato, plurilaureato, professore a Yale (dopo aver inse­gnato ad Harvard e alla Cooper Union University non ne ha ancora ra costruiti. Nel mondo, però, hagià lasciato più di un vistoso segno: da attraversare più che medi-tare. Nel Nuovo Mondo e nativo: l'America dove nacque nel 1932, a Newark, Newjersey. E nel vecchio e adottivo: l'Europa tutta e l'Italiain particolare, dove negli anni Ses-santa trovò (con la sorpresa di una rivelazione) un padre elettivo in Terragni, una seconda patria possibile nella Como in cui studiò in ogni angolo la Casa del Fascio e la Casa Giu]iani Frigerio, e l'affetto fanciullesco per un giornale – la Gazzetta dello Sport - che riceve quotidianamente in abbonamento nel suo studio newyorkese perseguire le partite della squadra del cuore (il Como, cela va sans dire, che gioca in C2). Anche la Spagna, però, dove sta creando la Città della Cultura di Galizia a Santiago de Compostela. E la Germania, dove affondano le sue radici familiari e dove sta fiorendo la corona della sua camera.
L'impresa più grande e grandio-sa che l'americano sta per compiere è infatti il Mahrìmal für die er­mordeten Juden Europas, il Me­moriale dell'Olocausto per gli ebrei uccisi in Europa, che sarà inaugurato a Berlino il prossimo 10 maggio. Grandioso e grande più del centro per le arti visive del­la Ohio State University realizzato negli anni Settanta o dei quartieri alto borghesi newyorchesi costrui­ti negli Ottanta, più dello stadio multidisciplinare a 68mila posti di Phoenix, Arizona e di quello olimpico che ospiterà i Giochi di T ipsia nel 2012. Se si vuole mantenere il simpatico metro calcistico, di cam­pi da football il monumento berli­nese ne misura ben quattro.

«Il memoriale non poteva essere più piccolo», commenta il suo autore, che raggiungiamo nel suo studio a NewYork. «Non fosse sta­to per la sua grandezza, non avrei accettato di progettarlo». Non è tuttavia una vuota area prativa per lo sport: lo gremiscono 2751 steli di porfido, di altezza variabi­le, fluttuanti nel pieno centro del­la capitale tedesca, tra la Porta di Brandeburgo e il bunker di Hit­ler, tra il vecchio Hotel Adion e l'ultranuova Potsdamer Platz, tra la cupola trasparente del Reich­stage il verde di Tiergarteñ:TTha costruzione ingombrante, che ha invaso le coscienze e le pagine dei feuilleton suscitando discus­sioni, disagi e malesseri tra i tedeschi, almeno da un decennio.
«Io faccio architetture per creare discussioni», riconosce tra l'atro l'architetto che, genio della provocazione, anche in questo sensi con il suo progetto ha fatto centri Una monumentalizzazione del colpa, una cementificazione del storia, una pietra sopra il passato una gettata di cemento sulla mi moria, si è detto in Germania, ai margini del cantiere, da dieci anni a questa parte. Una «discarica di corone», una «banalizzazione del bene» ha detto lo scrittore Martin Walser, tra i più accesi detrattc del memoriale: «Mi ha fatto un favore- commenta Eisemnan – un sacco di
pubblicità».
Adesso che il Mahnmal è pron-to, rabbia e invettive hanno lascia-to posto a curiosità e trepidazione. C'è viva attesa tra i passanti, berlinesi o turisti che, per ora, spiano dalle transenne. Come reagiranno quando cadranno le barriere? «Ci saranno in mezzo, ci saranno dentro, saranno là. E un'operazione che si può fare solo in architettura - spiega Eiserìman' - molto diversa da quella dei media che ne parlano da anni. E come per la tragedia dell'li settembre: una cosa è vederla rappresentata, in tv, o sul si-to di Cnn. Diverso è being there,esserci. Sarà lo stesso per gli spettatori rispetto all'Olocausto: non ho voluto costruirne un ricordo, ma portarceli dentro. Non evocare il passato, ma far vivere loro un'esperienza nel presente. E proveranno smarrimento, il senso della perdita del senso, come su un treno per Auschwitz».
Non c'è però nessuna esplicita allusione ad Auschwitz né allo sterminio, nel memoriale che gli è dedicato: nessuna iscrizione sulle lapidi, nessuna rappresentazione della tragedia. «La tragedia è statatalmente enorme - dice l'architetto - che qualsiasi iscrizione sarebbe stata kitsch. Qualsiasi enunciazione retorica, ogni spiegazione banale e ogni commento nostalgico e patetico. Meglio il silenzio: meglio lasciare soli gli spettatori,abbandonati a se stessi e privi di informazioni. Le pietre non parlano né vogliono dirti che cosa sono e che cosa sei. Come una chiesa:una basilica del Palladio non predica. Non importa what, "che cosa"dica, ma that, "che" dica». E una costruzione filosofica, allora: a piace of no meaning, il luogo dell'assenza del senso.
«Sì, l'insensatezza, l'inconsolabilità del genocidio non poteva trovare espressione in una forma classica. E questa è l'idea teorica che lo sottende. Un architetto, credo, è sempre un teoreta: costret-to però, a differenza dei filosofi, a dislocare le sue idee in uno spazio. Perciò io non credo di essere un intellettuale: sono un architetto che costruisce idee. E l'idea che vorrei arrivasse a chi camminerà tra le steli del Memorial, è un monito riguardo al passato: allora si credeva nella razionalità, come nello Zeitgeist. Si credeva fosse lo spirito del tempo, e la razionalità è diventata mortalmente irrazionale». Ciò è evidente nell'area monu-mentale: è cubista e surreale, labirintica eppure attraversata da strade lineari, babelica e spettrale, eppure rigorosamente geometrica e eretta su pietre perfettamente squadrate.

«Sì, il progetto è razionale, di purezza geometrica. Ma poi, chi si trova dentro la sua realizzazione, si accorge che le colonne di pietranon sono diritte, e che il bosco pietrificato fluttua, o affonda». Finiràforse che, in quel bosco, i turistiandranno a passeggio. Salterannoda una stele all'altra, si siederanno sulle più basse a leggere il giornale,i ragazzi ci correranno conio skateboard e disegneranno graffiti con la vernice spray. «Lo spero! Faran-no tutto questo e altro che non pos-so prevedere mi voglio controllare. Non si può sapere che cosa pensi o senta chi legge un libro, guarda un film o visita un museo». E se le famiglie, nelle domeniche di sole,ci porteranno i cestini della cola-zione per farci il plc nic, sarà come la realizzazione di un sogno: neanche fosse un autogrill...