“L‘architettura è troppo importante per essere lasciata agli architetti”
è l’aforisma più noto di Giancarlo De Carlo, che negli anni ’60 con
questo assioma voleva mettere in discussione le prassi progettuali
consolidate in urbanistica e in architettura. Intendeva ribaltare, fin
dall’impostazione, la metodologia di chi sostiene l’autonomia
disciplinare e il primato del linguaggio; una logica autoreferenziale
che, spesso, tiene poco conto dei bisogni reali dei fruitori e che porta
a una trasformazione urbana poco condivisa. De Carlo proponeva la
Progettazione Partecipata, spesso attraverso la metodologia del
workshop, in cui l’utente è da subito coinvolto nel processo
decisionale, dando rilievo e sostanza alle sue aspettative. Poneva a se
stesso precisi confini operativi: come tecnico si limitava a far
convergere i singoli ‘desiderata’ verso un comune interesse per la
qualità complessiva, funzionale, tecnico-economica ed estetica.
Ribadiva che, solo il “dialogo orizzontale” tra amministrazioni,
progettisti e cittadini consente di ridurre le possibilità di errore
nell’operare, in particolare nei processi di trasformazione urbana.
“L’architettura del futuro –affermava – sarà caratterizzata da una
partecipazione sempre maggiore dell’utente alla sua definizione
organizzativa e formale”, determinando una confluenza d’intenti tra la
committenza, i progettisti e i realizzatori.
Nel saggio Giancarlo De Carlo, L’architettura della partecipazione
(Quodlibet, 2013) la curatrice Sara Marini ripubblica alcuni importanti
scritti di De Carlo, tra cui appunto L’architettura della
partecipazione del 1972, in cui l’architetto sulla scorta di quanto
stava verificando a Terni aveva sistematizzato/corretto l’approccio
teorico di una precedente conferenza tenuta a Melbourne. Il villaggio
Matteotti e il Piano particolareggiato per il centro storico di Rimini
sono occasioni di sperimentazione concreta che Giancarlo De Carlo mette
in piedi con un team multidisciplinare, cui faceva parte anche Franco
Berlanda, Bruno Gabrielli e il sociologo Domenico De Masi.
Rifiutando l’idea dell’architettura come pura astrazione, De Carlo ha
indirizzato la sua ricerca verso un paziente lavoro di relazione tra
approccio teorico e concretezza del fare, verso una semplificazione che
conservava i valori della complessità, coniugando razionalmente e
poeticamente il concetto di ‘forma aperta’.
“Quando tutti intervengono in egual misura nella gestione del potere,
oppure – forse così è più chiaro – quando non esiste più il potere
perché tutti sono direttamente ed egualmente coinvolti nel processo
delle decisioni” l’utopia diventa realtà e l’architettura si pone al
centro tra l’uomo e l’ambiente, con il solo obiettivo di definire un
grado di trasformabilità compatibile.