La mostra presenta una selezione di venticinque fotografie eseguite negli
ultimi vent'anni da Marina Ballo Charmet, che da una formazione di
psicoterapeuta ha scoperto, nell'apparente neutralità della fotografia,
la possibilità di vedere anche aspetti ignorati della realtà, come se si
vedessero le cose per la prima volta (Sguardo terrestre, Roma,
Macro-Museo d'arte contemporanea, fino al 17 novembre, a cura di Stefano
Chiodi). E infatti il suo sguardo distaccato, che spesso non si leva
oltre i 90 centimetri, si colloca nella posizione di un bambino di tre
anni, peril quale tutto è nuovo e tutto ha un senso. Sopra tutto, tutto
ha in sé un interrogativo. La formazione di fotografa di Marina Ballo,
figlia del critico e poeta Guido, nipote di uno dei maggiori fotografi
del design, Aldo Ballo, è avvenuta alla scuola di Gabriele Basilico
durante una grande missione geografica in Bretagna. Si trattò, allora,
di lavorare su di un margine, quello stesso margine che divide il
continente dall'Oceano. Non a caso in sei fotografie qui esposte,
sapientemente stampate nella orchestrazione di grigi, lo sguardo si
sofferma sui fili di ferro di un rustico recinto, un confine a sua volta
tracciato nel disordine delle dune. Altrimenti si tratta di una visione
a volo d'uccello delle terre riscattate dalle idrovore. Dunque, non
solo un confine, ma
un confine in corso di mutazione.
Da allora, in modo del tutto autonomo, Marina Ballo avrebbe poi lavorato
sulle realtà che appaiono marginali, sino a evitare il «campo lungo»,
dove tutto è a fuoco, per accettare la sfocatura come segno della
prossimità del fotografo testimone di ciò che vede. La città, che
insistentemente le fotografie successive ci presentano, noi infatti la
ignoriamo. Ne annusiamo soltanto gli
angoli, osserviamo il disegno astratto delle pietre che delimitano un
marciapiede, oppure la disgregazione delle stesse pietre dovuta
all'usura quotidiana. Al di là di immare d'erba, in un parco parigino
bambini e famiglie giocano lontani, ma non abbastanza lontani perché non
giungano a noi, confuse e impenetrabili, le voci.
Quando poi in queste immagini fotografiche entra la figura umana, lì
l'ascolto si ritrae e subentra il silenzio pudico e imbarazzato, durante
il quale lo sguardo, pur non invadente, si sofferma sulla pelle
dell'interlocutore, il cui volto, comunque, non ci è mai dato
indovinare. Le case, nelle rare immagini, della metà degli anni Novanta,
nelle quali la macchina fotografica guarda in alto, sono ostinati
blocchi chiusi, come disabitati, nei quali conta soprattutto l'incastro
geometrico degli edifici razionalisti. Si conferma un'opposizione tra
duro e tenero, tra disertato e abitato, manufatto e durata.
La mostra raccoglie due decenni di lavoro e si conclude con immagini
recenti, veramente appassionate, scattate sotto il sole del Peloponneso.
ll confronto con una mirabile veduta crepuscolare
della laguna, punteggiata dalle luci delle briccole e rivelata da
un'onda vicina, del 1989, ci dimostra che una fase nuova è così
incominciata. La realtà della pietra granita, delle erbe magre annidate
nella roccia, dei blocchi accatastati dagli archeologi s'impone cosi con
una forza materica che appartiene interamente al mondo della Grecia, la
terra dove i miti si sono incontrati con la razionalità.