Nessun architetto ha mai scritto come Giancarlo De Carlo. Per la verità
anche molti scrittori riconosciuti non reggono il confronto con lo stile
superbo delle sue argomentazioni. «Da quando ho cominciato a praticare
l’architettura mi sono sentito assediato dagli aforismi che gli
architetti – soprattutto quelli mediocri – continuavano a recitare e
così mi sono affezionato ai ragionamenti limpidi che richiedono paziente
lavoro e fervida immaginazione», dichiarò De Carlo su Domus nel 1995.
Il suo capolavoro è L’architettura della partecipazione, il testo di una
conferenza tenuta a Melbourne nel 1971 nell’ambito di un ciclo sui
futuri scenari dell’architettura e dell’urbanistica al Royal Australian
Institute of Architects. Quodlibet l’ha appena pubblicato nella collana
Abitare insieme a due testi sui casi di progettazione partecipata del
piano di Rimini e del Villaggio Matteotti a Terni, una scelta
intelligentissima che permette di cogliere la misura radicale del
discorso politico di De Carlo.
Nell’edizione classica del Saggiatore, all’interno del volume
L’architettura degli anni Settanta, la conferenza era posta dopo due
interventi di Jim M. Richards e Peter Blake di argomento puramente
architettonico, e questo contesto autorizzava il lettore a interpretare
L’architettura della partecipazione soprattutto come una critica al
modernismo. E in effetti è innegabile che lo sia, ma non nel senso
generale e assoluto che gli viene attribuito. Il vero obbiettivo di De
Carlo non è il Movimento Moderno in quanto tale, ma l’architettura al
servizio dell’autorità, e in quegli anni teoria e pratica moderniste
avevano stretto legami sempre più forti con le ideologie reazionarie del
controllo e dell’efficienza produttiva.
La sua tesi è che «la consonanza tra Movimento Moderno e “zoning”
nasceva da un equivoco sul principio di “chiarezza”»: la divisione netta
delle funzioni sembrava ai modernisti il mezzo migliore per ottenere la
massima chiarezza delle forme urbane, da cui, in ottemperanza al dogma,
sarebbe scaturito l’equilibrio sociale. Ma «la “chiarezza” non è in se
stessa una virtù e tanto meno ha capacità esorcizzanti nei confronti dei
contenuti che esprime. Non c’è nulla di più chiaro di una catena di
montaggio, di un’ordinanza di polizia e di una dichiarazione di guerra».
Applicata a una cosa complessa come il sistema di relazioni e di
conflitti della vita urbana, la chiarezza non può che diventare un
elemento repressivo. L’architettura della partecipazione secondo De
Carlo è quella che consente di recuperare la critica e il dissenso, il
disordine e i conflitti che inevitabilmente l’uso della città impone. Il
suo discorso però non ha nulla a che vedere con la dimensione estetica o
con le fregole spontaneiste che cominciavano a fiorire in quegli anni,
ma riguarda esclusivamente il potere. La Las Vegas di Venturi, Scott
Brown e Izenour non gli interessa, lui vuole spostare l’ego smisurato
dell’architetto dal centro della scena per coinvolgere nel processo
decisionale chi da sempre ne è stato escluso.
Nel raccontare le esperienze di Rimini e di Terni, tra entusiasmi e
fallimenti, De Carlo descrive con grande lucidità le trappole che un
processo così ambizioso comporta, e la peggiore è quella che definisce
«la rapina del consenso»: nulla gli repelleva di più che una
partecipazione intesa come mediazione tendenziosa, come cattura delle
energie positive per sedare i conflitti reali e potenziali. E pensare
che i suoi eredi diretti, i professionisti della partecipazione, si
chiamano oggi “facilitatori”.