Non c'è parola più abusata e tradita riferita all'urbanistica e
all'architettura che «partecipazione». Accade, infatti, che quanto più
urgenti siano le risposte che i cittadini chiedono alle istituzioni
perché vengano soddisfatti i loro bisogni, altrettanto deludente si
dimostri il loro coinvolgimento nei programmi delle amministrazioni
pubbliche. Gli esempi sarebbero infiniti e ormai è una costante il
ripetersi del conflitto tra abitanti di una città o di un territorio e i
loro rappresentanti istituzionali.
Dal nord al sud dell'Italia sono
innumerevoli i casi nei quali l'assenza di politiche ambientali,
industriali e sociali esasperano la soluzione dei problemi anche i più
semplici: i processi inclusivi sembrano estranei alla cultura di
qualsiasi soggetto decisionale, inoltre l'eccesso di burocrazia non ne
agevola le soluzioni. In modo confuso si fa riferimento alle politiche
di coesione europee, alle «buone pratiche» messe in atto in molte
nazioni per agevolare la partecipazione dei cittadini al governo della
città, ma è frustante vedere come da noi accade il contrario.
Temi
quali quelli di sostenibilità o di recupero urbano che ovunque
contemplano processi partecipativi, nella maggioranza dei nostri comuni
si disperdono in lunghissimi iter procedurali tra il cattivo uso delle
risorse finanziarie e l'obsolescenza dei progetti. Così non si fa che
riprodurre altra «ingiustizia spaziale» oltre a quella già esistente.
Riflettere sull'importanza della partecipazione implica però, come ben
sappiamo, esaminare il rapporto della gente con la classe politica e
verificarne la loro capacità di attuare programmi efficaci rispetto la
questione urbana.
Soggetti autoreferenziali
Il
saggio Competenza e rappresentanza (Donzelli, pp.VI-108, euro 24) a
cura di Cristina Bianchetti e Alessandro Balducci, affronta l'argomento
della partecipazione all'interno delle più vaste problematiche che hanno
riguardato negli ultimi vent'anni le trasformazioni delle competenze
tecniche, quindi il ruolo degli intellettuali o degli «esperti», nel
loro difficile confronto con le istituzioni della politica e i
cittadini. Il saggio prende spunto dalla lectio magistralis che
Alessandro Pizzorno fece a Torino nel 2011 in occasione della XIV
Conferenza della Società italiana degli urbanisti. Scrive Pizzorno che
tre sono le vie che conducono i cittadini al potere politico: «una è
fondata sul principio di proprietà, una sul principio di competenza, una
sul principio di maggioranza».
La democrazia rappresentativa che si
fonda sul principio di maggioranza numerica deve fare innanzitutto i
conti con l'insoluta questione dell'uguaglianza economica tra gli
individui. Questo è il primo «fraintendimento» di qualsiasi sistema
politico perché non può mai rappresentare gli interessi «diversissimi da
elettore a elettore». Poiché sono i membri del parlamento - gli «eletti
del popolo» - a rappresentarli succede, come scrive Pizzorno, che le
differenti domande dei cittadini «non possono presentarsi altro che come
indeterminate e non sintetizzabili».
La nascita dei partiti
politici se è vero che ha permesso di «socializzare alla vita politica
una popolazione» d'altra parte ha fatto sì che la fedeltà ideologica
invece della competenza li trasformasse in soggetti autoreferenziali
diffidenti verso i tecnici. Oggi i politici di professione compongono
per Pizzorno un «sistema rappresentativo per campioni» e l'istituzione
elettorale è diventata una gara sportiva. «Il richiamo alla sovranità
popolare - scrive il sociologo triestino - si presenta semplicemente
come sotterfugio concettuale per giustificare la classe politica
stessa».
È difficile stabilire quali spazi possano ancora esserci per
«raddrizzare» il sistema della nostra democrazia rappresentativa che,
in ogni caso si disegni, «esce storta» alla prova dell'incapacità dei
governi di decidere sul futuro dei cittadini. Un'astratta concezione
riformista della politica pensò che il principio di maggioranza potesse
garantire sulla qualità delle competenze, quindi dei programmi e delle
scelte, ma così purtroppo non è successo. A partire dalle vicende di
Tangentopoli, con la crisi dei partiti e la «disarticolazione» della
politica, si sono prodotte le più devastanti modificazioni della città
che hanno visto gli urbanisti assecondare le richieste dei politici che
dal dopoguerra sono spesso stati scelti in base al criterio di «premiare
coloro che avevano portato maggiore aiuto al partito» (Pizzorno).
Purtroppo come scrive Alessandro Balducci nella sua incisiva
postfazione: «una parte non irrilevante della produzione mediocre
dell'urbanistica italiana dagli anni sessanta fino a tutti gli anni
ottanta si spiega anche così».
In quella stagione della storia
recente del nostro paese poche sono state le esperienze di
coinvolgimento dei cittadini nella progettazione urbanistica. In
assoluto, tra le più rilevanti, dobbiamo ricordare quelle di Giancarlo
de Carlo a Rimini e a Terni. Gli scritti dell'architetto genovese su
quelle esperienze sono ora riproposti nel saggio L'architettura della
partecipazione (Quodlibet, pp.144, euro 14). Il titolo riprende quello
della conferenza che De Carlo tenne nel 1971 al Royal Australian
Institute of Architects di Melbourne, chiamato per ultimo dopo Jim M.
Richards e Peter Blake a rispondere alla domanda su come si sarebbe
contrassegnata l'architettura degli anni '70. Per scoprirne la
straordinaria attualità, sebbene siano trascorsi molti anni, sarebbe
utile partire proprio da questo intervento per riprendere un discorso
interrotto e spesso travisato sul tema della partecipazione. Scrive Sara
Marini nell'introduzione che De Carlo «disegna una visione sfaccettata
della partecipazione, caratterizzata da un marcato astio verso ambigue
utilizzazioni e facili strumentalizzazioni della stessa».
È
assodato, infatti, che i «conformismi» e le «retoriche salvifiche»
(Bianchetti) furono anche una sua preoccupazione. Il dato certo è che De
Carlo è stato il solo a verificare sul campo la complessità
dell'architettura della partecipazione che in molti casi lo ha visto
perdente com'è successo a Rimini quando, incaricato di intervenire nel
centro storico della città romagnola i suoi contributi - «concreti,
realistici, strutturalmente eversivi» (Zevi) - finirono in un nulla di
fatto. Sarà così ad Ameglia, come ricorda Pizzorno nel saggio
precedente, dove De Carlo sarà «messo in minoranza da una maggioranza».
Negli anni settanta, però, le competenze di un urbanista si collegavano
alle politiche riformiste di partiti interessati a trasmetterle nelle
istituzioni oltre che a impossessarsene essi stessi.
Tutto il
contrario di quanto accade oggi: il «gioco della deliberazione» esclude
qualsiasi dialettica tra tecnici e politici. «La differenza tra
deliberazione e rappresentanza - ci ricorda Pizzorno - è che nella prima
la discussione mira a far tacere gli interessi dei partecipanti; nella
seconda è il contrario». In merito a queste differenze, De Carlo è stato
ancor più esplicito. Egli comprese che nell'epoca postindustriale è il
processo della cooptazione dei saperi da parte dell'architetto-urbanista
a causare il «disastro sociale e politico» perché «divide gli esperti,
quelli che 'sanno' e 'sanno fare' da quelli che non sanno neppure
'perché' si fa».
Nessun maquillage
A Terni,
con il Villaggio Matteotti progettato per gli operai delle Acciaierie,
l'architetto genovese trasforma un agglomerato di case malsane in un
esemplare progetto di riqualificazione urbana. Sottopone al giudizio
della direzione aziendale e del consiglio di fabbrica cinque ipotesi di
intervento. Tra queste esclude sia quella di incremento speculativo
delle cubature sia quella di un inutile maquillage dell'esistente, per
scegliere quella che consisteva nell'edificare tre piastre sovrapposte
entro le quali inserire le abitazioni, i servizi con i loro collegamenti
pedonali. La cronaca narrata da De Carlo conserva ancora la sua carica
di suggestione nella spiegazione di come la tipologia delle abitazioni,
così come la nuova configurazione del quartiere, si definiscono solo
chiarendo prima i bisogni reali «complessivi» e poi quelli «specifici»
dei 1800 operai che avevano bisogno di una casa.
Se è stata la
«tensione rinnovatrice» a produrre quell'esperienza, è la «chiarezza»
della lezione decarliana l'elemento più importante che l'ha sottesa.
Senza la chiarezza non c'è comunicazione tra gli individui, quindi è
impossibile finalizzare il risultato di una buona «organizzazione
urbana».
Imporla non è compito delle istituzioni che non sono di
loro «sagge, giuste, sane». Inoltre, anche le tecniche, le regole e le
poetiche messe a punto nel secolo scorso dalla modernità architettonica
hanno mostrato tutti i loro limiti pretendendo di modificare in modo
assoluto comportamenti e abitudini. In questa fase esasperata
dell'«idolatria della tecnologia alta» (smart grid city), l'urbanistica
che nella città delle reti svilupperà forme e spazialità sempre più
innovative e complesse, dovrà essere valutata nelle sue capacità di
socializzazione, altrimenti per il prossimo futuro non si vedranno che
crescere disagio e disuguaglianze.