Recensioni / Atlante minimalista

Si dibatte da tempo sui guasti della società dell'immagine e sull’accecamento che un eccesso di visioni provocherebbe ai nostri occhi. Eppure, esse ci continuano a sedurre. L’Ufficio proiezioni luminose di Matteo Terzaghi è una bella passeggiata nei meandri di questa seduzione, tra fotografie che qualche volta «colmano o ci illudono di saper colmare le distanze». Mai ornamentali, le immagini che si susseguono nelle pagine di questo libro sono il centro intorno al quale l’autore ragiona con garbo e profondità di sguardo. Parole e immagini vanno a braccetto, fondendosi così in un’efficace armonia che ha in Sebald uno dei maestri più grandi.

Matteo Terzaghi ha lo sguardo indolente del flâneur, il suo occhio si posa su immagini apparentemente senza importanza, sui dettagli minimi, sull'ordinario che, freudianamente, può apparire inquietante o sconosciuto.  Esemplare in tal senso la pagina che dà il titolo al libro, la targhetta con la strana dicitura che allude a pratiche tanto inesplicabili quanto affascinanti, una rêverie platonica che attiva l'immaginazione dello svogliato scrittore in cerca di stimoli visivi: «… mi abbandonai sulla poltrona e cominciai a fantasticare. Sedevo a una scrivania nel retro di un grande ufficio. Persone di ogni età, anche bambini, consegnavano le loro immagini a uno sportello, oppure ne chiedevano in prestito. I miei colleghi andavano e venivano e si adoperavano per soddisfare tutti; erano gentili senza mai essere troppo cerimoniosi. L’atmosfera era nello stesso tempo seria e allegra. Io dovevo corredare quelle immagini di una didascalia. “Scriva pure quello che vuole e come vuole”, mi diceva qualcuno. “L’unica raccomandazione è di rispettare sempre la verità”».

Il fascino di un libro o di un’immagine aumenta esponenzialmente con il numero di strade che apre al fruitore: il punto di partenza è noto, ma il punto d’arrivo e il percorso che vi conduce sono ammantati di un’oscurità che si rischiara solo cammin facendo. Suggestiva,  a questo proposito, l’immagine che di certi libri dà Matteo Terzaghi: «Sono come i massi erratici, li incontri durante una passeggiata e ti chiedi come hanno fatto a finire lì, su quella bancarella o nella bottega di quel rigattiere». Massi erratici che sembrano precipitati per caso sul percorso di chi lascia che siano curiosità e fantasia a guidare i suoi passi: una fotografia di famiglia, un vecchio volume sepolto tra mille altri, un’immagine che se scrutata con attenzione non smette mai di rivelare qualcosa di nuovo: tanti tasselli, insomma, a comporre un atlante della memoria, fatto di immagini da contemplare, da interpretare e da collegare tra loro. Un atlante senza un apparente filo conduttore, il cui minimalismo si apre a riflessioni capitali sulla natura e sulla funzione delle immagini, tra Benjamin, Barthes e la memoria di Warburg, senza la pretesa di cercare risposte o definizioni, accogliendo semmai tutte le possibilità che questa passeggiata (in senso walseriano) tra le immagini offre, dalla nostalgia al divertissement, dall'iconologia all'iconoclastia, per chiudere il cerchio sul lato estremo del visibile, con la foto che congela l'attimo in cui un killer sta sparando al fotografo mentre questi immortala i propri cari in una foto ricordo, un involontario ribaltamento del dispositivo di “Las Meninas”, dove lo strumento di riproduzione cattura il doppio del fotografo un attimo prima che cancelli definitivamente ogni possibilità di guardare.