L'editore Quodilbet, a otto anni dalla scomparsa di Giancarlo De Carlo,
gli dedica un volume. Che, oltre a riproporre il celebre saggio
sull'architettura della partecipazione pubblicato quarantun anni fa,
racconta due progetti emblematici: il piano per il nuovo centro di
Rimini e il Villaggio Matteotti. Ne abbiamo parlato con la curatrice del
volume Sara Marini, architetto e dottore di ricerca allo Iuav di
Venezia.
Giancarlo De Carlo è stato uno dei primi architetti italiani a
teorizzare e sperimentare la partecipazione nell’ambito della
progettazione. Classe 1919, genovese di nascita, a lui si devono
progetti come il campus dell’Università di Urbino e il Villaggio
Matteotti, quartiere residenziale per gli operai delle Acciaierie di
Terni. Fondatore del Team X – un gruppo di giovani architetti attivo tra
gli Anni Cinquanta e Settanta – curò numerose pubblicazioni e fondò nel
1978 la rivista “Spazio e società”. Abbiamo intervistato al proposito
la curatrice del libro, Sara Marini.
Il saggio di Giancarlo De Carlo “An Architecture of Participation” è
stato pubblicato nel 1972 dal Royal Australian Institute of Architects
nella serie Melbourne Architectural Papers, che raccoglie le riflessioni
esposte da De Carlo durante una conferenza. Quali sono i motivi che vi
hanno spinto a riproporre queste tesi oggi?
L’architettura della partecipazione è oggi, nel mondo occidentale, una
questione dibattuta, frammentaria e contraddittoria. Forse è con il
progetto di trasformazione della West Side Line a Manhattan, linea
ferroviaria dismessa, in High Line, parco lineare, chiesto e ottenuto
dai friends dell’infrastruttura sopraelevata (il primo tratto è stato
inaugurato nel 2009), che il ritorno di quello che De Carlo definisce il
pubblico dell’architettura si fa “manifesto”. Già in questo progetto è
possibile rintracciare i caratteri della partecipazione nel
contemporaneo: chi partecipa lo fa per ribaltare un punto di vista, la
linea ferroviaria in questione doveva essere abbattuta; spesso oggi
partecipazione è sinonimo di protesta, non è una fase a monte del
processo decisionale ma viene dopo, è una reazione; l’architettura
dell’High Line, pur essendo molto sofisticata, sia tecnicamente che
linguisticamente, cerca di apparire quale accettazione dello status quo,
quasi a sostenere il senso di uno spazio che è stato “trovato”, e non
progettato, quasi a marcare una non necessaria associazione della
partecipazione alla rinuncia dell’architettura.
Nel saggio di De Carlo alcune tematiche sono proprie degli Anni
Settanta, ma l’atteggiamento con cui architettura e partecipazione sono
lette, con chiara tensione verso sfaccettature, trappole e possibilità, è
ancora oggi attuale. La lucidità e la decisione con cui De Carlo incede
a cercare le ragioni, il senso dell’architettura stessa, ponevano
allora chi ascoltava e pongono oggi chi legge oltre la condizione del
mero ascolto, muovono a una presa di posizione, a scegliere una parte
nel processo progettuale, o forse più genericamente nel paesaggio
culturale della società.
La partecipazione, soprattutto in architettura, è certamente ancora un
tema attuale. Secondo lei per quale motivo questo avviene e quali sono i
margini entro cui si muove oggi?
La centralità oggi di alcune accezioni del rapporto fra partecipazione e
progetto ne restituiscono solo una visione parziale: intesa quale
espressione di protesta, anticamera dell’autocostruzione o procedura
normata politicamente, la partecipazione sembra essere comunque
“anormale”, eccezione al regolare procedere. Recuperata quale diritto ma
solo a giochi fatti, tollerata per realizzazioni economicamente deboli e
temporaneee, dettata per legge e spesso praticata in forma di
burocrazia, il senso della partecipazione sembra essere ancora distante
da quello descritto da De Carlo. In sostanza, la società non si è
appropriata dell’architettura, come invece dovrebbe. Non perché tutti
debbano essere tecnicamente architetti, ma culturalmente tesi verso
l’arte dello spazio, questo sì. Mentre la tecnologia, i trasporti,
alcuni servizi sembrano indispensabili, l’architettura non è necessaria:
è qualcosa a cui si può rinunciare. Quindi, paradossalmente il fatto di
parlare oggi con vivo interesse dell’architettura della partecipazione,
a distanza di quarant’anni dal momento in cui questa questione era
centrale nel dibattito disciplinare e nell’opinione pubblica, coincide
con l’ammissione della non completa attuazione di un processo culturale
necessario.
Parlando del lavoro di De Carlo lei porta come esempio le due mostre
tenute nel ’72 e nel ’73 alla Galleria Politeana di Terni, in cui
“l’architettura della partecipazione è raccontata e vissuta come utopia
realistica”. Cosa intende con questo ossimoro?
De Carlo cita Le Corbusier e il suo inneggiare a utopie realistiche. Le
due mostre ternane rappresentano due passaggi fondamentali del processo
di partecipazione con cui l’architetto e il sociologo Domenico De Masi
arrivano a definire il progetto: in particolare, nella prima vengono
esposte alcune architetture quali esempi per abbattere il muro di
richieste inferiori a quelle effettivamente realizzabili, per suggerire
possibilità. In un’intervista De Carlo ricorderà, ancora con stupore,
quanto poco chiedessero le persone rispetto a quello che potevano
ottenere. Da qui il rimando alla battuta di Le Corbusier, sempre
presente come riferimento nel lavoro di De Carlo, all’associazione, solo
apparentemente paradossale, fra utopia e realtà. Credo che tutto questo
sia ancora decisamente attuale, se non più di allora: la realtà, oggi,
sembra ancora più pesante, limitante, e una certa aura di immutabilità
decreta e sostiene la debolezza del progetto. “Realisticamente” potremmo
imputare questa debolezza alla condizione economica, anche se guardando
con attenzione ci si potrebbe accorgere che la crisi non ha prodotto
quel “subitaneo cangiamento” che le è proprio per definizione, proprio
perché non ci sono tensioni oltre la contingenza e l’accettazione della
stessa.
Nell’introduzione indica due direzioni secondo le quali il testo di De
Carlo si muove. La prima è che “non serve una teoria della
partecipazione ma occorre l’energia per uscire dall’autonomia”, la
seconda è che “le risposte di un bravo architetto alla partecipazione
sono sicuramente di tipo personale”. Ci spieghi meglio questi due
suggerimenti indicati da De Carlo.
De Carlo considera l’architettura un’attività eteronoma e non autonoma,
un’attività che deve dialogare con altre discipline e altre realtà:
quella frase si riferisce a un momento del dibattito architettonico in
cui le due posizioni erano molto nette e disegnavano due modi
diametralmente antitetici d’intendere la disciplina. La seconda frase è
stata inserita come necessaria integrazione della prima e a corollario
di un testo come L’architettura della partecipazione per fugare il
dubbio o il pregiudizio che le posizioni di De Carlo conducessero o
conducano oggi a una richiesta di annullamento della figura del
progettista. L’architetto c’è, e fa scelte personali anche quando
orchestra un processo o un dialogo partecipativo; l’autore non scompare,
ma anzi dilata il proprio ruolo, partecipa egli stesso a tutte le fasi
della progettazione, all’impostazione, alla definizione, alla redazione e
infine alla valutazione dell’opera dopo che questa è stata consegnata
al committente. Delle due, la seconda è una frase assolutamente
necessaria a fissare quanto l’autore sia il perno del processo di
definizione dell’architettura, non nel mettere in campo la propria
creatività quanto la propria idea di spazio.
Quali gli esempi che si possono annoverare oggi tra quelli di “architettura partecipata”?
Ci sono casi interessanti quali la biblioteca all’aperto progettata dai
Karo a Magdeburgo, realizzata con un processo partecipativo in cui
abitanti e progettisti hanno simulato l’architettura alla scala reale,
ma se ci si attiene al senso al fondo del testo di De Carlo, quel senso
che andrebbe discusso oggi, i casi effettivi di architettura partecipata
sono poco noti perché non sbandierati. Si tratta di casi in cui
committente, progettista e utente condividono un progetto culturale e
non solamente o precisamente scelte progettuali così come è stato a
Terni (dove però il processo partecipativo è stato palese). Oggi
rientrano in quest’idea di progettazione forse più alcuni spazi del
lavoro che strutture residenziali o spazi pubblici, perché la
committenza è nello spazio del lavoro che tende a voler coinvolgere, per
far partecipare a un’idea di progetto comune, come ad esempio succede
nel centro di formazione professionale progettato da Durisch e Nolli a
Gordola in Svizzera, voluto da una società di costruttori e realizzato
con una chiara presa di posizione verso la questione ambientale. Oltre a
possibili committenze illuminate, è nello spazio del lavoro che si
assiste a processi di auto-organizzazione in cui il valore dello spazio è
centrale perché a questo è demandato il senso e la dignità del proprio
fare e del fare collettivo. In questo caso si assiste più a riutilizzi
di spazi esistenti, come nel caso di Toolbox a Torino, che alla
realizzazione di nuove costruzioni, sia per un’idea di investimento
“temporaneo”, sia per la necessità che tutto questo avvenga ora e nel
centro delle città.
Quali sono i punti di contatto tra l’idea di architettura partecipata
espressa da De Carlo negli Anni Settanta e quella praticata oggi da
architetti come Alejandro Aravena?
Sinceramente preferisco il Villaggio Matteotti di De Carlo
all’operazione Elemental di Aravena, osservati ora. Del caso cileno è
interessante la struttura economica progettata, che si traduce anche in
spazio non finito, in attesa di essere occupato in base alle possibilità
e alle necessità. Si tratta di un caso importante di riscoperta di
alcune operazioni degli Anni Cinquanta del secolo precedente, ancora
rivolto a una precisa fascia sociale. Il Villaggio Matteotti, costruito
allora per operai non certo abbienti, è invece oggi una struttura senza
etichetta sociale. Potrebbe abitarci chiunque: è un’architettura della
partecipazione.