Recensioni / Celati, la profondità della leggerezza

L'investigatore Muccinelli ha una missione da compiere. O forse no, chi può dirlo. Però ha un tesserino del Ministero e lo sventola di qua e di là, suscitando rispetto e preoccupazione in ogni angolo della cittadina in cui si è insediato. Dove si trovi non si sa, ma dev’essere da qualche parte nella grande pianura. Un piccolo centro, con piccoli segreti che sarebbe meglio non svelare. Succede così dappertutto, ma qui c’è di mezzo Muccinelli, e Muccinelli indaga. Sarà un castigamatti o un rompiscatole? E, più che altro, sarà quello che dice di essere o, più banalmente, quello che gli altri credono di vedere in lui? “Il caso Muccinelli” è uno dei quattro memorabili racconti che Gianni Celati presenta in Selve d’amore, un libro che richiama in servizio personaggi e situazioni già presenti nei due sorprendenti volumi di Costumi degli italiani, editi da Quodlibet nel 2008.
Siamo, come sempre, sul filo tra paradosso e poesia. «Tra un po’ parlerò della notte – annuncia a un certo punto Celati –, la bella notte, che è come un buco vuoto in cui le cose aspettano che passi via il farnetico, e il buio e l’incerto vengano a dirci che i nostri desideri si sono tutti assopiti, e il cuore è finalmente sazio». Si riconosce l’eco di Leopardi in queste righe, ma di un Leopardi ancor più scarnificato nello stile, restituito al commercio di parole semplici, quotidiane, dalle quali si sprigiona una purezza abbacinante e dimessa. Classe 1937, compagno di strada di varie sperimentazioni (non esclusa quella del Gruppo 63), Celati è rimasto sempre originale e autonomo nel suo percorso di verifica del linguaggio. Il brano appena citato, per esempio, viene da “La notte”, il racconto che chiude il libro e che sembra segnare il congedo dal personaggio di Pucci, l’adolescente senza qualità che di Costumi degli italiani e di Selve d’amore è l’involontario antieroe. “La notte” è un titolo semplice, appunto, ma percorso da un’infinità di richiami (basti, per tutti, il film diretto da Michelangelo Antonioni nel 1961). Nella prosa spoglia esapiente di Celati, quella di Pucci diventa l’unica notte che sia necessario raccontare, sospesa tra abisso e accettazione. È una minima tragedia domestica, venata però da un umorismo commosso,
che in Celati non nasce mai dalla contemplazione distaccata delle miserie umane, ma al contrario deriva dall’adesione appassionata a ogni destino, a ogni debolezza.
Illuminante, in questo senso, l’avventura dell’io narrante nella storia che dà il titolo al volume: partito per andare a cercare in un’altra città la donna di cui pensa di essere innamorato, scrocca un passaggio in auto dichiarandosi «un servo» e in quel momento riconosce qualcosa di sé, come se la parola nascondesse il potere di rivelare e, insieme, di liberare. Maestro segreto
di un’intera generazione di “narratori delle pianure”, Celati si conferma parente stretto di una linea europea che da Kafka arriva fino a Beckett, lambendo solo di rado un’Italia che, anche in letteratura, continua a ignorare la meravigliosa profondità della leggerezza.