È il giorno dei morti, allegri! «L'è el dì di mort, alegherl» è il
titolo sotto cui si raccolgono i versi in milanese di Delio Tessa, un
poeta che senza esagerare va considerato uno dei maggiori
del Novecento. Dante Isella, nella sua lunga ricognizione della
letteratura lombarda, ha connibuito alla sua riscoperta. Nato a Milano
nel 1886 e morto poco più che cinquantenne nel 1939 per le complicazioni
di un ascesso ai denti, Tessa divise in tre la sua vita: tra la
professione di avvocato, la poesia e, più tardi, la collaborazione ai
giornali. Si laureò a Pavia in giurisprudenza e praticò senza entusiasmo
la professione nella sua città, dove visse sempre con la madre.
Assecondato e sostenuto da alcuni amici fedeli, scrisse versi dialettali
sublimi e allucinati, per non dire disperati, che raccontavano,
deformandola, la realtà cittadina. Non negò mai Tessa di soffrire per lo
scarso successo ottenuto in vita, ben consapevole però che il pubblico
«desidera ed ama chi gli dà la pace di un'ora, chi lo illumina col
raggio della speranza». Non era il caso del suo amaro pessimismo
sarcastico sempre più radicale e tendente al macabro.
C'è anche lo scrittore in prosa, come ci ricorda La bella Milano, una raccolta di pezzi di costume, critiche cinematografiche, elzeviri usciti sull'Ambrosiano e soprattutto sul Corriere del Ticino,
dove Tessa preferiva scrivere vista la sua dichiarata avversione al
fascismo. Il libro, pubblicato dall'editore Quodlibet, è curato da Paolo
Mauri, che di cultura lombarda se ne intende: «Se Milano è la
protagonista indiscussa di queste prose», scrive, «bisogna aggiungere
che la Milano del Tessa è ormai molto diversa da quella del Porta e del
Manzoni: si è fatta più grande con tutte le nuove periferie dove le case
vengono su come funghi e magari restano per un pezzo vuote». Nella
metropoli restituita dallo spleen di Tessa, quasi un flâneur alla Robert
Walser, c'è
un'eco dell'espressionismo tedesco (parola di Pasolini) e c'è qualcosa del futurismo di Boccioni e dello sguardo cupo di Sironi.
Tra l'amarezza e una rabbia malcelata, afferma: «Sono nato a Milano in
via del Fieno e venuto grande invia Olmetto e se stesse a me me ne
andrei ormai definitivamente dalla mia città per non assistere allo
scempio sistematico a cui la sottopongono le Competenze col C
maiuscolo». Tessa se la prende con il Piccone Risanatore che demolisce
mura e chiese antiche in nome di un Piano Regolatore senza idee davvero
innovatrici. C'è molta pmtecipazione alle sorti della città, mescolata
con un velo di raccapriccio dell'uomo che lsella definiva
«orgogliosamente schivo, bizzarro, umbratile», un specie di «Charlot in
precario equilibrio». Carlo Linati, che procurò a Tessa la
collaborazione all'Ambrosiano, sottolinea la «bellezza dimessa»
dei suoi interventi, il suo «malinconico umorismo in punta di pennino»,
la sua realtà di «polvere, odori, vecchie tinte, rimasugli e vecchiumi»
che non diventano mai bozzetto.
Una sera Tessa si dilunga a leggere poesie in pubblico (era anche un
gran lettore di Carlo Porta) e perde il tram: si incammina dunque in
solitudine, nella notte, per le strade della città dopo aver assistito
«alla partenza delle belle, delle grandi automobili, nere, luccicanti
sotto i fanali...»: «Dorme la città immensa e disabitata... immensa pare
davvero coi suoi viali dritti, coi suoi
corsi lunghissimi...». La città chiusa, con la Galleria che sembra una
gran sala vuota, è immersa nel suo «sonno duro», priva di «libidini
notturne», tra «fioche lucerne». Pare spettrale: non ci sono ubriachi;
non ci sono più le vecchiette che «dormivano alle porte chiuse della
chiesa» accanto ai falò della carta straccia accesi contro il freddo;
non ci sono i barboni che un tempo, assopiti sui marciapiedi, venivano
svegliati e invitati da benefattori premurosi ad andare a dormire nei
primi ricoveri della città. Non si sentono più le loro imprecazioni:
«Andee a cà, vagabond, lazzaroni, lassee stà la gent che dorma!».
Nei «tragitti brevi» percorsi da Tessa, c'è la Scala e ci sono i cinema
di periferia, ci sono i poveracci e le portinaie, i bambini, le mamme e
le zie, c'è la gente «perbene», le «le belle barbe autorevoli», le
«teste grigie emergenti», e ci sono i personaggi illustri, da Toscanini a
Trilussa, da padre Agostino Gemelli a Luigi Rusca, il direttore della
Mondadori, che leggeva non solo con gli
occhi ma anche con i polpastrelli, sensibili alla pagina dei libri come
fossero antenne di insetti. Milano raccontata in una sorta di
sospensione solitaria e poetica che tutto vede e tutto trasfigura.