Recensioni / Luperini, la fobia dell'io e la morte della critica

Leggo Tramonto e resistenza della critica (Quodlibet) di Romano Luperini, una raccolta ben orchestrata di saggi in cui si discute sia del declino dell'intellettuale che della marginalità dell'insegnamento letterario oggi. La sezione dedicata ai critici contiene capitoli su De Sanctis, Auerbach, Debenedetti, Guido Guglielmi, la prospettiva antropologica nello studio della letteratura e il ritorno della critica tematica, segnalato e proposto ormai vent'anni fa da Wemer Sollors.
Leggo sempre i saggi di Luperini con un forte senso di partecipazione e fraternità problematica, accentuata in questo caso dalla frase a sorpresa che apre il volume. «Questa è la mia ultima raccolta di saggi» e quindi (come suona il titolo della premessa) si tratta di pagine scritte «per chiudere i conti».
È il pathos del tramonto della critica a caratterizzare il libro. La critica potrà resistere al suo declino, ma ha perduto il protagonismo al quale si era abituata nel Novecento, secolo in cui
un manipolo di critici occuparono i primi posti nelle controversie intellettuali e politiche: Lukács, Benjamin, Auerbach, Bachtin, Wilson, Barthes, senza dimenticare filosofi e poeti che spesso hanno dato il meglio come critici: Croce, Eliot, Valery, Ortega, Adomo, Sartre, Auden.
Condivido i problemi e molte constatazioni di Luperini. Ma uno dei punti del suo discorso riesco a malapena a capirlo: è la polemica contro l'individualismo, a cui Luperini affibbia volentieri aggettivi come "narcisistico", "cinico", "rampante". Posso capire (fino a un certo punto) che la soggettività sia un ostacolo in politica, filosofia, scienze umane e sociali. Ma in letteratura e nella critica l'individuo e la soggettività sono uno strumento ineliminabile di conoscenza e spesso anche l'oggetto, il tema della conoscenza. Il rapporto fra critica e autobiografia fu indagato da Debenedetti nel saggio omonimo, e senza dubbio quel rapporto è visibile in diversi eccellenti critici-scrittori: Montale, Praz, Fortini, Pasolini, Calvino, Garboli.
L'autobiografia alimenta ogni genere letterario e non è etichettabile come "il peccato di Narciso”.