La malinconia ambrosiana sveglia angoli e aneddoti che portano spesso con sé il sapore di una città meno spocchiosa e più sincera. Per gustarlo, si può leggere «La bella Milano» (Quodlibet, pp. 432, euro 16, a cura di Paolo Mauri) di Delio Tessa che raccoglie prose apparse negli anni Trenta. Tessa, avvocato e poeta in dialetto di un solo libro in vita, «L'è el dì di mort, alegher!» (1932) che uscì per Mondadori, si fa cronista del recente passato nelle «Prose ambrosiane» e delle sue passioni nelle «Critiche contro vento», le due parti del volume. Il gioco è seguirlo a passeggio, mentre incontra portinai, legatori di libri, clienti che va a trovare con i mezzi con attese ancora ben note: «La navicella tranviaria è all'orizzonte? Non pare. Aspetto? Vado a piedi?». Il poeta, che spesso si dà del fallito, ha la curiosità del solitario e un'ironia tutta sua, anche nei panni del «critico filmistico». Inviato alle prime Mostre di Venezia, critica gli italiani, apprezza René Clair, Disney e Chaplin, che gli ricorda l'attore milanese Ferravilla, e dà consigli: «Ho tante volte augurato all'arte filmistica italiana di attenersi ai soggetti modesti, regionali», un invito raccolto indirettamente, tempo dopo, da «L'albero degli zoccoli» (1978) di Ermanno Olmi. Si incontrano, poi, episodi mitici della letteratura lombarda, come quando Tessa tenne «Una dizione portiana in una casa di piazza Vetra» e «Non era precisamente un salotto letterario», ma un casino dove lesse le poesie di Carlo Porta. Senza dimenticare i commenti alla società letteraria, come nel decennale del premio Bagutta, quando «due vecchi librai brontoloni» mettendo in vetrina il vincitore commentano: «Gh'è tropp premi in gir cara lu. La gent la bocca pu!» («Ci sono troppi premi in giro, caro mio, la gente non ci casca più!»). Erano altri tempi? Forse.