Recensioni / La verità dell'ispettore Celati tra i burattini della nostra fantasia

«Invece nell'inverno si sono aperte le cateratte della fantasia», promette Gianni Celati al lettore in Il caso Muccinelli, secondo mirabolante racconto di Selve d’amore (in uscita da Quodlibet Compagnia Extra, prosegue idealmente i due volumi dei Costumi degli italiani, sempre per lo stesso editore): e mantiene la promessa. Nella cittadina in cui vive il narratore capita un giorno tale Muccinelli, supposto ispettore del ministero degli Interni, per svolgere indagini di natura imprecisata. I benpensanti si preoccupano, le autorità promuovono un’indagine parallela su di lui, il giornale locale sforna roboanti editoriali a sostegno del nuovo eroe venuto a far piazza pulita dei corrotti, la gente comune è disorientata, sospesa tra senso di colpa e una vaga aspirazione alla palingenesi.

Saltano fuori magagne di ogni tipo, anche se non ad opera dell'investigatore, il quale si limita a osservare la gente che esce di chiesa la domenica o fa domande incongrue ai camerieri dell'albergo in cui è sceso. La soluzione ritarda, la rivoluzione ristagna, Muccinelli viene a noia, a parte gli strambi risaputi che lo accompagnano nel suo girovagare trasognato, l'impermeabile stretto in vita, il sigaro in bocca, in mano un inutile taccuino di appunti. Che non sia un vero ispettore? Che sia un matto, un lunatico, un mitomane? Eppure è grazie a lui se un'intera città si mette a nudo, rivelandosi a se stessa, come già accadde al regno in cui capitò un giorno Perelà, l'omino di fumo di Aldo Palazzeschi.

Se Muccinelli non sembra desiderare nulla, i protagonisti degli altri racconti sono ossessionati dai desideri. Sessuali, come nel primo che dà il titolo alla raccolta, un vero e proprio falansterio dove il narratore ginnasiale punteggia l'innamoramento per una provocante amica della madre con passi della Vita Nova di Dante; ma anche di rispettabilità, stabilità, ascesa sociale, come nel terzo, Matrimonio Bellavista, dove il figlio maggiore della famiglia Marcocesa ha ben chiaro il disegno di sposare una signorina ricca, o nel quarto, bellissimo, La notte, dove la famiglia Pucci – lui notabile democristiano, lei amante di un Monsignore – fa chiudere in manicomio il figlio Aurelio, già personaggio di primo piano dei Costumi degli italiani.

Sulle piccolissime aspirazioni dei suoi attori Celati non esercita alcun moralismo: piuttosto una mescolanza irripetibile di ilarità e compassione, stilizzazione umoristica e complicità creaturale. Ognuno è il burattino della propria fantasia, e questo è fondamentalmente un bene. Perché la fantasia non è lo scarto o lo strappo ma la regola, il destino di chiunque, anche quando calcola, fa piani, imbroglia, si crede furbo. Non a caso il giovane Pucci torna volentieri in manicomio, dopo aver trascorso una notte memorabile con la madre, cui poco tempo prima aveva tirato un mattone nella schiena provocandole un'infiammazione della pleura. Materiale tragico che diventa comico, ivi compreso il tema dell'incesto, massima interdizione della specie umana, che affiora a più riprese nel libro, o quello del doppio (l'investigazione sull'investigazione nel secondo racconto).

Non Visconti e nemmeno Fellini, cui Celati viene spesso accostato, in quanto è del tutto assente in lui il sottofondo tra vitalista e nichilistico che trasformava La dolce vita in una orrenda mascherata. Anche qui non ci sono che maschere, e le fissazioni, i tic, le anomalie sono tutti modi di un'unica sostanza; ma che liberazione, che felicità, perfino, riconoscerlo: «E la notte non è che l'ombra di tutti i momenti che devono ripetersi, è la frescura che li avvolge, è l'abbraccio che tiene tutto insieme, il buco nel tempo in cui i desideri vengono alla superficie e si spandono nell'aria perché nessuno si senta più estraneo».

Miracolo d'arte, come sempre in Celati, è la cancellazione dell'inevitabile superiorità dell'autore sui personaggi: un autore che si spoglia della parte di demiurgo e dio delle creature e fa continuamente mostra di non saperla poi più lunga di loro, con una scrittura, ha detto bene Marco Belpoliti, che inciampa sempre senza mai cadere, inanellando una serie di gag verbali altrettanto indifese e irresistibili di quelle che si svolgono sul piano dell'azione. Ne sa quanto Muccinelli. A volte non ricorda proprio tutto; forse le cose non sono andate esattamente così; vai a fidarti di chi te le ha raccontate; ma va bene lo stesso, né il mondo né la lingua ammettono dislivelli, cesure, crepe permanenti. «E voi, là fuori, siete in molti?», replicano i matti a chi li interroga dietro i loro recinti. Siamo moltissimi, e speriamo che saranno altrettanti i lettori.