Recensioni / Etica e atemporalità nell'anello di Roma

La più cele­bre infra­strut­tura romana, dive­nuta ormai leg­gen­da­ria, spa­zio di un epos coin­vol­gente e in con­ti­nuo amplia­mento, ha dato luogo nel tempo a una plu­ra­lità di let­ture molto diverse tra loro se non pro­prio, a volte, dia­me­tral­mente oppo­ste. Sono let­ture che spa­ziano dall’analisi storico-strutturale a quella socio-antropologica; dall’assunzione del grande cer­chio come un anello sim­bo­lico a enigma urba­ni­stico; da dispo­si­tivo stra­dale auto­re­fe­ren­ziale – la «mac­china celibe» di Renato Nico­lini – a matrice di una nuova espan­sione della città; da modello ana­lo­gico dell’intera metro­poli romana a meta­fora della infi­nita cir­co­la­rità dei flussi che attra­ver­sano la città; da potente cor­nice della città sto­rica ad alter­na­tiva alla cen­tra­lità di que­sta ope­rante città lineare; da luogo di esplo­ra­zioni di tipo psi­co­geo­gra­fico a per­corsi di matrice nar­ra­tiva. Il tutto in una per­for­ma­tiva ibri­da­zione tema­tica tanto con­cet­tual­mente inde­ter­mi­nata quanto capace di susci­tare un inte­resse spesso eufo­rico e totalizzante.
Da Fede­rico Fel­lini a Marco Lodoli; da Ser­gio Lenci e il suo GRA visto dall’alto a Marco Pie­tro­lucci; da Renato Gut­tuso a Roberto Sec­chi e a Stal­ke­ril grande peri­me­tro cir­co­lare, per alcuni le nuove Mura Aure­liane, si è mol­ti­pli­cato in una fio­ri­tura ine­stri­ca­bile di motivi e di imma­gini, nella quale l’indagine scien­ti­fica si affianca alla diva­ga­zione discor­siva e all’evocazione di figu­ra­zioni com­plesse e metamorfiche.

Sacro romano GRA Per­sone, luo­ghi, pae­saggi lungo il Grande Rac­cordo Anu­lare del pae­sag­gi­sta Nicolò Bas­setti e del gior­na­li­sta e scrit­tore Sapo Mat­teucci (Quod­li­bet Hum­boldt, pp. 256, euro 16,50) – libro dal quale è nato il film di Gian­franco Rosi pre­miato a Vene­zia con il Leone d’Oro da Ber­nardo Ber­to­lucci –, appar­tiene alla tipo­lo­gia psicogeografico-narrativa, sulla cui genesi occorre sof­fer­marsi bre­ve­mente. Alla base, nella moder­nità, dell’erratico e rab­do­man­tico uni­verso metro­po­li­tano, c’è Char­les Bau­de­laire e il suo eroe quo­ti­diano, il flâneur.
A que­sto esplo­ra­tore della città, che non sa dove andare ma sa come andarci, un sapiente e ispi­rato ascol­ta­tore della miste­riosa metrica delle strade, degli iso­lati e dei segni che descri­vono gli edi­fici, si è poi som­mata la figura ben­ja­mi­niana di chi cono­sce l’«arte di smar­rirsi nella città». Un’arte molto dif­fi­cile, per­ché per per­dersi occorre dimen­ti­care tutto il sapere accu­mu­lato in infi­nite pere­gri­na­zioni tra quar­tieri cono­sciuti e sco­no­sciuti, tra viali, piazze, par­chi e ter­rain vague. Deco­struendo e al con­tempo rico­struendo le mappe men­tali e sen­ti­men­tali della città, il viag­gia­tore urbano, pro­ta­go­ni­sta delle rifles­sioni del filo­sofo ber­li­nese, crea una sua rap­pre­sen­ta­zione fon­data sullo stra­nia­mento e spesso su una vera e pro­pria fal­si­fi­ca­zione della realtà. Ciò che egli cerca non è tanto la verità urbana quanto la dimo­stra­zione dell’impossibilità che que­sta esi­sta e abbia un senso. Per­den­dosi nella città il suo inter­prete perde prima di tutto se stesso, diven­tando parte secon­da­ria di quel movi­mento che Nico­lini, nella sua defi­ni­zione del GRA come mac­china celibe, ha descritto come privo di con­te­nuti, di ritua­lità e di finalità.
Dopo Wal­ter Ben­ja­min c’è Guy Debord. Le derive situa­zio­ni­ste sono abban­doni avven­tu­rosi all’energia urbana che non pre­ve­dono tra­iet­to­rie pre­de­ter­mi­nate, rap­pre­sen­tan­dosi in iti­ne­rari stra­ti­fi­cati, mute­voli e alter­na­tivi. Se il flâ­neur non sa dove andare ma sa come andarci, il cul­tore delle derive sa dove andare ma non sa andarci seguendo tra­gitti pre­fis­sati. Affi­dan­dosi al caso e a una bus­sola inte­riore, egli rie­sce a seguire le vena­ture nasco­ste delle città, quella fili­grana di indizi spa­ziali che si rende evi­dente solo per mezzo di attra­ver­sa­menti crea­tivi. Com­bi­nando la psi­co­lo­gia con la sto­ria, la memo­ria con la geo­gra­fia, la pecu­lia­rità topo­gra­fica con la suc­ces­sione di luo­ghi e non-luoghi, si dà vita a una vera e pro­pria inven­zione della città fatta di illu­mi­na­zioni, di com­pa­ra­zioni, di ana­lo­gie e di diver­sioni. Come nell’esemplare Lon­don Orbi­tal di Iain Sin­clair, senza dub­bio un modello diretto o indi­retto del libro di Bas­setti e Mat­teucci, la città si tra­sforma com­ple­ta­mente facen­dosi labi­rinto bor­ge­siano «illi­mi­tato e perio­dico», mondo paral­lelo, mosaico di avven­ture esi­sten­ziali che tra­pas­sano l’una nell’altra, elenco e cata­logo di cose impre­ve­di­bili o impre­vi­ste, appa­ri­zione di simu­la­cri sor­pren­denti, reper­to­rio di con­di­zioni indi­vi­duali che per­dono una dopo l’altra la loro iden­tità con­fon­den­dosi in un con­ti­nuüm emo­zio­nante. Della genea­lo­gia dei modi di ricerca della città uti­liz­zando la città stessa fa senz’altro parte l’idea che Freud, ripren­dendo un’intuizione di Goe­the espressa nel suo Viag­gio in Ita­lia, ha pro­po­sto nel suo Il disa­gio nella civiltà. Lo stu­dioso vien­nese scrive che Roma non è un’entità fisica, ma in prima istanza psi­chica, nel senso che in essa il pas­sato, il pre­sente e il futuro non si pre­sen­tano come tem­po­ra­lità sepa­rate ma si sovrap­pon­gono l’una sull’altra in una com­pre­senza suggestiva.
Se si riper­corre nella sua com­ples­sità la genesi del cam­mi­nare, che tra i suoi teo­rici conta anche il grande Henry David Tho­reau, non è dif­fi­cile ren­dersi conto che il rical­care con i pro­pri passi il trac­ciato in vera gran­dezza della città signi­fica in realtà negarla. Rinun­ciando a estrarre da essa la forma urbis, ma con­trap­po­nendo a que­sta i suoi fram­menti si pro­cede infatti, a un’operazione di deco­stru­zione radi­cale del testo urbano. Esso è non più con­si­de­rato come qual­cosa di ten­den­zial­mente com­piuto e uni­ta­rio, ma è visto come l’intersezione acci­den­tale di vet­tori urbani attorno a cia­scuno dei quali cre­scono come resi­stenti rami­fi­ca­zioni gro­vi­gli di fatti, di per­sone e di cose.
Sacro Romano GRA è un’opera avvin­cente, dalla prosa lim­pida e essen­ziale. Pre­ce­duta da un’avvertenza e da un pro­logo, e con­clusa da una post­fa­zione di Gian­franco Rosi, si arti­cola in dodici capi­toli – dodici come le ore dell’orologio o i segni dello zodiaco – cia­scuno dei quali è una sto­ria a sé. Tut­ta­via la sin­go­la­rità di cia­scun rac­conto è ingan­ne­vole. Ogni sto­ria si lega infatti all’altra in una con­ti­nuità poe­tica risolta dagli autori in tona­lità discor­sive costanti, fatte per un verso di forte empa­tia, per l’altro di sapienti distanziamenti.