Intorno alla Luna . L’altra faccia della tecnica nelle paradossali
ricadute della più enigmatica e straordinaria impresa dell’uomo,
lanciato oltre i confini della Terra
Ci sono eventi storici che a dispetto della loro indiscutibile epocalità
invecchiano precocemente o, forse, nascono già vecchi. È il caso di
quanto è chiamato, con espressione che tradisce una preoccupante
retorica imperiale, la «conquista» della Luna. La vicenda si svolge in
un arco di tempo relativamente breve: dal primo allunaggio del 20 Luglio
1969 all’ultima missione umana sulla luna (Apollo 17) passano poco più
di tre anni. E fin dall’inizio la vicenda è segnata da una certa forma
di scetticismo che arriva fino al dubbio iperbolico sulla realtà stessa
del fatto.
Per i teorici della cospirazione, Neil Armstrong e Buzz Aldrin non sono
stati affatto i primi a scendere sul nostro satellite. L’allunaggio
principe sarebbe stato solo un effetto speciale realizzato in segreto
dal più visionario regista cinematografico dell’ultimo scorcio del
Novecento, Stanley Kubrick, il quale, come racconta un singolare
documentario del 2012 di Rodney Ascher (Room 237), avrebbe poi girato
Shining proprio per comunicare, a chi avesse occhi per i dettagli
apparentemente più insignificanti, il falso da lui realizzato (perché
l’Apollo 11 è raffigurato sul maglioncino del piccolo Danny? Perché il
numero della stanza misteriosa corrisponde in migliaia di miglia alla
distanza dalla Luna?).
Proprio il proliferare di questo sciocchezzaio complottista mostra come
dalla Luna si possa imparare molto relativamente allo statuto
dell’esperienza nella post-modernità, vale a dire in un tempo in cui,
secondo il celebre detto heideggeriano, il mondo tende a convertirsi
nella sua immagine e indiscernibile diventa il confine che separa il
reale dalla sua simulazione. Imparare dalla Luna (Quodlibet, pp. 206,
euro 19,00) è il titolo di un suggestivo e insolito saggio di Stefano
Catucci. Che cosa ci può infatti insegnare la Luna interamente
secolarizzata che per poco più di un decennio è stata l’arena mediatica
della guerra fredda? Innanzitutto può dirci molto sulla postura del
soggetto moderno. I passi incerti, quasi infantili, dei pochi cosmonauti
che per qualche giorno hanno inscenato strani balletti sulla sua
superficie rinviano a un problema d’ordine teorico rilevantissimo.
Il padre della fenomenologia, Edmund Husserl, contestava la possibilità
che l’uomo potesse abbandonare la sua dimora terrestre anche nel caso
fosse approdato sulla luna. La Terra per Husserl non è semplicemente
quel corpo fisico descritto dalla scienza, del quale si può predicare il
moto circolare incessante e la sua uguaglianza di fatto con gli altri
corpi celesti, come vuole la lezione copernicana. La Terra è in primo
luogo un Suolo su quale poggiare; la Terra è una Madre, ma meglio
sarebbe dire che è un orizzonte di senso che sempre por¬tiamo con noi e
rispetto al quale, in barba a Copernico, noi siamo sempre situati al
centro.
Questa Terra non copernicana non è abbandonabile perché ciò
significherebbe dismettere la misura umana, vorrebbe dire trascendere
quella correlazione originaria di mondo e coscienza del mondo che per
Husserl, e per buona parte del pensiero moderno, costituisce un articolo
di fede.
La Terra vista dalla Luna o vista insieme alla Luna (come nella celebre
fotografia Earthrise) è, secondo Husserl, ancora la Terra vista dalla
Terra (da una «seconda» Terra), è una sorta di «autoriflessione» della
Terra, dell’unica intrascendibile Terra nella quale viviamo e dalla
quale non possiamo mai fuoriuscire. Ecco perché la visione mirabolante
della Terra resa possibile dalla tecnica aereonautica induceva nei
pionieri dello spazio amene considerazioni sull’unità del genere umano e
sulla necessità della fratellanza univevsale (di fatto poi smentite
dalla simbolica coloniale della «conquista»).
In fin dei conti mettendo piede su quanto per millenni aveva
rappresentato il fuori assoluto l’uomo ne cancellava di fatto l’alterità
riportandolo alla propria misura, una misura per altro angusta, quasi
soffocante, come testimoniato dalle stucchevoli fotografie di serenità
famigliare che qualche astronauta sentimentale si è sentito in dovere di
lasciare sul suolo lunare, a riprova dell’universalità del triangolo
Edipico.
Se Husserl ha ragione, come Catucci ritiene, allora ciò che veniva di
fatto sperimentato nei disagevoli spazi dei moduli lunari era il
rovescio del sogno di Giordano Bruno, del sogno di Nietzsche e di tutti i
filosofi che sono stati copernicani intransigenti: il sogno
dell’infinito, il sogno di un fuori che fosse veramente assoluto, il
sogno di un viaggio che fosse anche congedo dalla misura umana e dalla
claustrofobia della Terra-Suolo-Casa-Madre. È invece il «ritorno» a
fungere da orizzonte dell’epopea della Luna: «Non voleremo mai così
lontano da non riconoscere nella Terra il nostro luogo di provenienza,
la nostra patria».
Tant’è che se l’uomo tornerà a mettere piede sulla Luna, come sembra
accadrà a breve grazie a interventi privati e alle ambizioni di grandeur
delle nuove potenze planetarie (Cina, India), questo avverrà anche
sotto il segno paradossale del turismo culturale. Sulla Luna si potranno
cioè contemplare con disinteressato sguardo estetico e con curiosità
antropologica le tracce del passaggio umano. La Luna sembra così dovere
tutto il suo incanto al fatto di avervi albergato l’uomo! Non è forse
l’impronta del piedone di Armstrong una delle immagini più potenti
dell’epopea lunare? E l’impronta è per l’archeologo l’indice
indiscutibile del passaggio dell’uomo. Infatti la Nasa, con il
protocollo del Luglio del 2011 sulla conservazione delle tracce umane,
ha provveduto a perimetrare le zone dei precedenti allunaggi, ne ha
catalogato i reperti con filologica acribia, financo quelli più umili e
apparentemente insignificanti, ha stabilito distanze di sicurezza come
si usa fare nei musei per preservare le più preziose testimonianze.
Ha, insomma , cominciato a pensare l’oggetto Luna come oggetto estetico,
come feticcio museale e, in ultima analisi – siamo negli Usa,
dopotutto! – come gigantesco parco a tema, nel quale l’umanità possa
celebrare una volta di più se stessa. Il modello è quello dei Period
Rooms nei quali il turista americano può rivivere la quotidianità del
suo antenato pioniere, con la differenza che in questo caso le tracce
sono autentiche e destinate a preservarsi indefinitamente grazie alle
particolari condizioni del clima lunare.
Catucci ha ragione a notare che da tale musealizzazione emergono tratti
tipici del mondo post-moderno: «il primato dei simulacri, il carattere
autoreferenziale delle rappresentazioni, la dissimulazione della realtà
dietro la rete delle interpretazioni, la confusione tra il processo e il
dato, come pure tra il naturale e l’artificiale». Bisognerebbe forse
aggiungere che la trasformazione della Luna in oggetto estetico conferma
indirettamente tutto il superstizioso antropocentrismo del pensiero
moderno, un pensiero incapace di pensare il fuori altrimenti che nella
forma di una «seconda Terra» (Husserl) e l’infinità degli spazi cosmici
che lasciavano senza fiato un Bruno o un Leopardi altrimenti che nella
forma di un «mondo» curvato sul suo centro assoluto, l’uomo, il solo
essere che abbia il privilegio di «avere» un mondo (Heidegger).
Di tale chiusura claustrofobica nell’umano è segno infine la qualità
scadente dell’arte che ha come oggetto l’epopea lunare, ad esempio i
quadri dell’ex astronauta Alan Bean. Ciò si deve, credo, al fatto che
l’arte ha come vocazione naturale il rapporto con il fuori, con quanto
prolifera al di sopra o al di sotto della dimensione umana, ha a che
fare con una trasgressione dell’esperienza. L’arte è veramente
copernicana, quando invece ciò che la Luna, trasformandosi in un parco a
tema, sembra insegnarci è che non c’è fuori alcuno: c’è sempre e solo
la nostra vecchia e cara Terra, con le sue famigliole patriarcali e con
la bandiera a stelle e strisce che sventola nel giardino.