Il territorio lunare, inesplorato da 40 anni, sta diventando una
reliquia a cielo aperto. Perché salvaguardare i luoghi degli allunaggi? E
che rapporto ha l’estetica umana con le immagini della Luna? Tutto su
di “noi” e sul “nostro” satellite, in un libro.
Grazie al consiglio di un amico, mi è capitato in questi giorni di
leggere un libro bellissimo ricco di scoperte e rivelazioni: s’intitola Imparare dalla Luna; lo ha scritto Stefano Catucci, professore di
Estetica alla facoltà di Architettura della Sapienza di Roma; lo ha
pubblicato Quodlibet con il consueto gusto e un magnifico apparato
iconografico. Mai come in questi giorni, tra l’altro, la Luna è
ritornata al centro dell’attenzione globale. La Cina, con la sua sonda
Chang’e 3 ha effettuato il primo allunaggio morbido dal 1976
trasmettendo nuove riprese dalla pianura di Sinur Iridum. Mentre solo
poco tempo prima, a fine novembre, si è diffusa la notizia di un
progetto in fase avanzata incentrato sulla coltivazione di orti in vitro
da sperimentare sul suono lunare nell’ambito del Google Lunar X Prize,
il premio di venti milioni di dollari, messo in palio nel 2007, da
assegnare alla prima squadra privata che riuscirà a fare atterrare sulla
Luna, percorrendo almeno cinquecento metri e trasmettendo immagini in
alta definizione, una sonda robot.
Proprio il Lunar Prize, come ci informa Catucci, ha reso più pressanti
le classificazioni giuridiche del territorio lunare e della notevole
quantità di oggetti (la lista, a quanto pare parziale, del Manmade
Material on the Moon) lasciati sul nostro satellite naturale. Una
corrente di pensiero riconducibile alla Nasa vorrebbe che tutti i siti
di allunaggio, ma in particolare quelli del primo e dell’ultimo, fossero
considerati alla stregua di siti storici, da preservare con estrema
rigidità, imponendo a quelli che si prevedono i probabili turisti
spaziali futuri il divieto di contaminare e modificare le desolate scene
delle imprese umane nello spazio attraverso l’istituzione di Exclusions
Zones (2 km di raggio a partire dal punto di allunaggio).
Le vertiginose riflessioni intorno a questi musei lunari costituiscono
uno dei più interessanti capitoli di cui si compone il libro (gli altri
riguardano rispettivamente: il lato nascosto della luna, l’immagine
della Terra vista dalla Luna, l’arte che si è sviluppata intorno al
rapporto tra uomo e Luna), dove in modo molto convincente viene
elaborata un’interpretazione della Luna come “laboratorio del
postmoderno” e dove si capisce quindi l’omaggio al Robert Venturi di Imparare da Las Vegas. Le tracce dell’uomo sul suolo lunare, ragiona
Catucci, sono testimonianze di una archeologia di superficie «che non ha
bisogno né di scavare né di scoprire», tracce che «non servono a
ricostruire una realtà non sperimentabile direttamente ma si limitano
invece a confermare una realtà già nota e documentata, anzi costruita
fin dal principio seguendo una strategia documentaria molto precisa».
«Il primato dei simulacri, il carattere autoreferenziale delle
rappresentazioni, la dissimulazione della realtà dietro la rete delle
interpretazioni, la confusione tra il processo e il dato, come pure tra
il naturale e l’artificiale», elementi caratteristici del postmoderno,
sono tutti tratti che emergono dal ragionamento intorno a questa
stranissima, eppure perfettamente comprensibile, idea di preservazione
lunare. Allora i siti in questione finiranno forse per essere una via di
mezzo tra le posticce Period Rooms («prodotti di un sistema espositivo e
rievocativo che non distingue il documento dalla messa in scena») e i
Musei Sentimentali («le collezioni private di memorabilia che
riflettevano le curiosità, i viaggi, i gusti e la biografia di che le
aveva raccolte»).
Si legge provando stupore e rapimento, con una sensazione continua di
scintille che ti scoppiettano in testa, grazie al riuscito equilibrio
tra storia culturale, riflessione filosofica e rassegna di cultura pop.
Ci si chiede: possibile avere tutti i giorni, nel senso più letterale
del termine, qualcosa davanti agli occhi senza pensarci mai? Possibile
aver tenuto la Luna in una considerazione così bassa? Si evince, infine,
che la Luna, come realtà esterna, non è solo il paradigma dell’uomo che
guarda verso l’altrove, ma anche il paradigma dell’altrove che guarda
l’uomo e quindi un formidabile strumento interpretativo per la nostra
specie e le sue azioni.
Il ribaltamento di prospettiva è particolarmente centrale nel secondo
capitolo, quello che riguarda le immagini scattate dalla Luna alla
Terra. Catucci si concentra essenzialmente sulle due più note tra le
numerose possibili: Earthrise e The Blue Marble, identificando nella
seconda un semplice ritratto e nella prima l’immagine di un’esperienza,
unaPathosformel nella definizione di Aby Warburg, «un ibrido di memoria e
novità». E se ha ragione Peter Sloterdijk a dire che «chi vive oggi,
dopo Magellano, dopo Armstrong, si vede obbligato a percepire anche la
propria città natale come la proiezione di un punto percepito
dall’esterno» e che «nemmeno nell’epoca dei viaggi nello spazio
l’impresa di visualizzare la Terra ha potuto negare la sua qualità
semi-metafisica», in queste pagine si trovano alcune brillanti
argomentazioni in grado di dare un significato al senso di vertigine che
ognuno di noi prova guardando la Terra dal di fuori.