Poi lo si manda giù sorseggiando prima che si raffreddi, ed è tutto
finito. Meno facile che bere un bicchier d’acqua, però. Intanto il tè
non si beve mai da un bicchiere. Da una tazza, invece: gigante o mignon.
Ciotola nipponica o mug inglese, tisaniera francese o chawan zen. E,
secondo i casi, recipiente ornato di preziosi decori, orlato d’argento,
inciso “a pelo di coniglio”. In porcellana cinese o in ruvida
terracotta; suppellettile raffinata o irregolare e screpolata, smaltata
con la maestria della tecnica raku o povera di ascetica povertà. Ma
anche trascurando le cineserie, le chincaglierie e tutto l’armamentario
occorrente alla preparazione e al consumo di un tè servito come Dio
comanda, anche tenendo chiuso il lungo capitolo del collezionismo (o
della storia dell’arte) di scatole laccate, contenitori appositi,
bollitori e teiere, non si godrà appieno il gesto finale – l’atto di
bere – se dell’infuso dorato ci si limita, sul momento, ad assaporare
l’aroma. Buono è buono. E, anche quando non corretto da spezie, oli
essenziali, latte, zucchero o limone, profuma intensamente di suo.
Sprigiona un sapore di ligustro e caprifoglio, fondo amaro di mandorla o
punta dolce e tannica di mela acerba. E tanto basti a soddisfare il
palato. Ma la cultura del tè abbraccia uno spettro di sensazioni ed
evocazioni ben più ampio di quello percepito dalle papille gustative.
Associazioni estetiche, letterarie, poetiche. Religiose, cerimoniali,
politiche. Farmacologiche, medicinali, salvifiche: per il corpo e per lo
spirito. L’eco di rimandi risvegliata da quella paroletta – tè, thé,
tea, Tee – che gli europei hanno variamente traslitterato dal cinese
ch’a, è prolungata e varia almeno quanto lunga e fascinosa è la storia
della bevanda dissetante. Che ha origini lontane e orientali: è nata in
Cina, prima di diffondersi in tutte le terre emerse del pianeta, pare
quasi cinquemila anni fa. Ma gli aneddoti ricamati attorno a questo
inizio contribuiscono a infittirne il mistero e a offuscare la chiarezza
di una data certa.
Forse non è vero che Bodhidharma, il monaco indiano che nel VI secolo d.
C. introdusse in Cina il buddismo zen, si fosse reciso le palpebre per
prevenire ogni possibile assopimento nel corso delle sue meditazioni, e
che cadendo sul terreno le cigliate membrane abbiano fatto spuntare
l’aggraziato arbusto dalle foglioline sempreverdi, lanceolate come un
occhio desto: il dono portentoso offerto poi ai devoti del Buddha come
un aiuto per allontanare il sonno. Più verosimile è che il mitico
imperatore Shen Nung, il padre della medicina cinese, abbia un bel
giorno (correva l’anno 2700 a. C.) acceso un fuoco dopopranzo e fatto
bollire dell’acqua all’ombra di teacee frasche. Le quali, agitate dal
vento, lasciarono cadere nella pentola del Figlio del Cielo i loro
saporosi germogli. Così, per un accidente, sarebbe stata inventata la
tisana delle sorprese: accidente fortuito e fatale quanto quello occorso
al panettiere milanese che, inciampando maldestramente davanti al
forno, rovesciò nell’impasto tutti i canditi e l’uvetta sultanina per
cuocere il primo panettone della storia.
Ma chissà se fu davvero un tè il decotto digestivo bevuto così per caso
all’aria aperta da un uomo tanto potente in un’epoca tanto remota. C’è
chi dubita che quella piovuta nel calderone imperiale fosse piuttosto
l’erba t’u, diffusa ancora ai tempi di Confucio (VI secolo a. C.) e
impiegata anche come offerta votiva ai funerali: una pianta medicinale
che con il tè presenta solo una certa somiglianza nella grafia del nome,
nella forma del monogramma cinese, ma appartiene a tutt’altra specie e
ha un gusto assai più amaro e allappante. E c’è chi sostiene che nei
trattati di medicina di Shen Nung le parti relative ai poteri lenitivi e
lievemente energizzanti del tè siano spurie, che siano un complemento
postumo e tardivo, aggiunto dopo il VII secolo, quando erano ormai
comprovati da un centinaio di anni gli effetti stimolanti della presunta
mutilazione di Bodhidharma.
Per quanto anacronistiche e incredibili, le due versioni leggendarie della scoperta
dell’acqua calda – da versare scrupolosamente in infusione – rendono
entrambe giustizia alla bibita venerabile dalle virtù euforizzanti e
nervine che avrebbero potuto farne un antidoto impareggiabile contro il
più assorto, meditabondo sopore o contro la spossatezza postprandiale
dell’imperatore. Un tonico benedetto. Un toccasana degno di culto. Quale
in effetti, attorno
al tè, a un certo punto si costruì. A istituirne autorevolmente i
precetti e i comandamenti non fu però un monaco santo, ministro,
sacerdote o maestro di cerimonia, né un capo di stato investito di
celesti poteri, bensì nientemeno che un dio, quale nella Cina del VII
secolo a un comune mortale poteva capitare di essere proclamato per
decreto imperiale o per acclamazione popolare. E ad attestarne verità e
fondamenti non valse solo una messe di credenze e dicerie, o tutta una
mitologia di racconti fantastici, bensì l’incontrovertibilità di una
parola rivelata. Il dio del tè, patrono dei coltivatori della delicata
piantina, dei mercanti delle sue foglie essiccate, torrefatte e
compattate in panetti o mattonelle, degli adepti dell’arte di preparare,
servire e gustare l’aromatico infuso si chiama Lu Yu. E la Bibbia, o il
“Canone del tè”, il “Ch’ajing”, il trattato più antico che sia mai
stato dedicato alla sublime bevanda, tradotto solo oggi per la prima
volta in italiano per la cura di Marco Ceresa e per i tipi delle
edizioni Quodlibet, è, del misterioso maestro cinese, il capolavoro.
L’autore, divinizzato post mortem, fu un poeta e un letterato, un orfano
abbandonato da piccolo e un novizio spretato, un teatrante pieno di
talento ma un attore mancato, un dignitario al centro della vita di
corte e poi un eremita esaltato che visse come un’avventura strabiliante
la sua vita nel fiore dell’epoca aurea della cultura cinese. Visse tra
il 733 e l’804, durante la gloriosa dinastia T’ang sotto la quale, come
il consumo del tè, molte altre raffinate occupazioni assunsero la
dignità di una nobile disciplina: la pittura, la calligrafia e la
composizione di poesie, la musica del liuto, il gioco degli scacchi (il
weich’i, giocato con trecentosessanta pezzi) e la pratica delle arti
marziali, la danza, il gusto di ardere incensi e di coltivare giardini…
E’ appunto con certe considerazioni di carattere agricolo e botanico
sulle piante nate spontaneamente o coltivate nei giardini del tè, con la
descrizione dei virgulti, gli arbusti – in casi eccezionali cresciuti
fino alle dimensioni di alberi possenti – della Camellia Sinensis che
comincia questo testo singolare che, considerata la divinità di chi lo
scrisse, è ritenuto sacro. Il suo valore, la sua importanza
straordinaria è data dal fatto di costituire la base di quella che
grazie al “Canone del tè” e a partire da esso sarebbe diventata un’arte,
e di rappresentare il capostipite di un fortunato genere letterario,
quello dei libri sul tè. Non si contano i titoli di scritti incentrati,
da allora e fino a oggi, sui piaceri, i prodigi e i benefici della
liquida delizia orientale. Solo in Cina ce ne sono almeno un centinaio.
Ma uno resta il canone che inaugurò il cosiddetto “ch’a-shu”, la cultura
e l’arte cinese del tè, una sapienza che nulla ha a che vedere con il
sofisticato rituale codificato in seguito (intorno al IX secolo) dai
monaci giapponesi, nulla ha a che spartire con la rigorosa liturgia
nipponica del “ch’a no yu”, la cerimonia del tè, tanto invisa, per via
di certi eccessi di stilizzazione e di maniera, ai concreti e pratici
cinesi. Il ch’ashu, se proprio si vuole ricondurlo a una dottrina, è più
vicino al sentimento taoista della spontaneità, della fluidità,
dell’intimità immediata e non artificiosa. E’ una sorta di intuito, di
fiuto, di gusto, un sesto senso tutto da coltivare. Una speciale
abilità, acquisita con l’esperienza, l’osservazione e la passione, nel
compiere un’intera serie di gesti: come raccogliere e lavorare al
momento propizio le foglie, dosare la quantità esatta di polvere da far
bollire, indovinare la giusta temperatura e qualità dell’acqua, esaltare
al massimo l’aroma della miscela prescelta, riconoscere le ceramiche
migliori, ricordare vecchie storie e canzoni… Difficile immaginare una
conoscenza più empirica, squisitamente estetica e sensuale. Con tutti e
cinque i sensi, più un atteggiamento percettivo di fondo – l’attenzione –
l’adepto apprenderà e farà sue le informazioni che Lu Yu attraverso il
suo “Canone” impartisce. Dettami che hanno meno il carattere di
insegnamenti, di lezioni filosofiche e speculative, che quello di
nozioni tecniche, consigli pragmatici, malizie ed espedienti del
mestiere. Di trucchi che, anche per il linguaggio fiorito con cui
vengono formulati, per le figurazioni immaginifiche con cui vengono
esemplificati, riescono immancabilmente prodigiosi. Magici,
sorprendenti, favolosi.
Si prenda solo il caso dell’ingrediente più schietto e più puro:
l’acqua. “Semplice” solo da bere in un bicchiere. Se si tratta di
utilizzare al meglio la più adatta per fare un tè, il fluido elemento
rivela le più sottili, perfino musicali variazioni. Pur concedendo la
difficoltà, anche per un cinese medievale cresciuto in mezzo alla
natura, di attingere la più genuina che sgorga da sorgenti montane o
quella ineguagliabile “che gocciola da stalattiti e si raccoglie in
pozze tra le rocce”, e pur limitandosi a imporre l’unico divieto di
andare a pescarla in bacini limpidi “ma fermi dall’estate, dove al calar
della brina si raccoglie il veleno dei draghi che vi si nascondono”, Lu
Yu non transige sulla precisa gradazionedella sua cottura. Sono
sfumature che l’esperto coglie con l’udito, con l’orecchio avvertito e
teso a captare il sibilo, il gorgoglio o l’impetuoso fragore che cresce
dentro il bricco messo sul fuoco. Il discepolo apprendista si aiuterà
anche con certe utili rappresentazioni icastiche per distinguere la
prima bollitura, quella in cui le particelle d’aria salgono in
superficie come occhi di pesce, la seconda in cui le bolle si raccolgono
sul bordo del recipiente come le perle di una collana, e la terza in
cui nel bollitore si scatena la tempesta dei marosi che montano e delle
onde che si infrangono. Passata la fase burrascosa di questo
addomesticato fortunale, “l’acqua invecchia e non la si può più bere”
sentenzia tranciante Lu Yu. Ma è appunto di quel culmine
dell’ebollizione che si dovrà approfittare per far sì che le foglioline
tuffatefino a immergersi e a farsi travolgere rilascino le loro essenze
più sottili: la schiuma e le sospensioni, descritte dal maestro in
estasi come i fiori del giaggiolo che fluttuano su stagni circolari;
come le verdi lenticchie d’acqua nate sulle rive di tondi laghetti; come
i petali del crisantemo abbandonati su coppe e vassoi; o come le nuvole
vaganti che si sovrappongono simili a squame nel cielo terso e sereno.
Sono immagini sognanti che però Lu Yu mette a fuoco con l’occhio bene
aperto e uno sguardo sollecito e amoroso. Dettagli niente affatto
ornamentali, men che meno superficiali, descritti con uno scrupolo per
l’esattezza che sfiora di quanto si osserva soprattutto la bellezza;
presentati con una smania per l’evidenza – oggettiva, sperimentale
– che favorisce la più mirabile epifania; riportati con un senso della
misura tarato sul metro della poesia. E’ così che un mero prontuario, un
libro di istruzioni su come preparare un ottimo tè, diventa un canone,
una regola, di valenza persino religiosa. Così un semplice manuale
diventa uno splendente libro di saggezza.
Anche le notazioni botaniche sul conto della specie vegetale che offre
l’ingrediente principale di questo breviario e ricettario – la pianta
del tè – con tutte le loro pseudoscientifiche tassonomie, compongono
piuttosto quasi un ritratto celebrativo di un personaggio degno di
rispetto, tratteggiato avendo cura di metterne in luce i pregi e le
somiglianze di famiglia. Dunque la camelia di discendenza cinese avrebbe
il portamento agile e fiero del crespigno degli orti, le sue foglie
ricorderebbero quelle scure, eleganti e lucenti della gardenia, i fiori
quelli della rosa canina. I frutti, se assaggiati, hanno un sapore
analogo a quelli della palma, lo stelo assomiglia a quello su cui
crescono i chiodi di garofano, e le radici hanno la durezza tenace di
quelle del noce. Breve passeggiata nel giardino delle delizie.
Rientrando in casa, in cucina, l’angolo dove sono riposti in bell’ordine
gli umili strumenti per mettersi al lavoro sembra, ascoltando le parole
di Lu Yu che li passa in rassegna, un antro di tesori, una camera delle
meraviglie, un magazzino di oggetti curiosi e preziosi: gerle, graticci
e pestelli, stampi, misurini e setacci, mestoli, bracieri e legacci… In
tutto ventiquattro strumenti e, volendo compiacere un ospite di
riguardo, non ci si dovrà far mancare neanche uno di essi. Ma Lu Yu,
specie nell’ultima fase eremitica della sua esistenza, pare sapesse
arrangiarsi con un barattolo e quattro legnetti per scaldarsi e sorbirsi
tranquillo un tè en solitude in mezzo ai boschi. Il vecchio era in
grado di prendersi cura di sé. E, purché avesse tra le mani una tazza
ricolma e fumante, riusciva a godersi in ogni circostanza un momento di
sublime perfezione. Che anche i rilievi annotati nel “Canone” riguardo
agli effetti benefici del suo
abituale beveraggio – tra l’altro tutti (o quasi) verificati dalla
scienza e dalla medicina d’occidente – suonino come un inventario di
portenti, l’elogio di una pozione stregata o di un elisir miracoloso,
non stona con l’aura fatata e poi divina di cui ancora in vita e tanto
più dopo morto si sarebbe cinto. Gradito rimedio per chi soffre di
disidratazione, melanconia, mal di testa, aridità degli occhi, dolori
alle quattro membra, rigidità delle cento articolazioni, il tè,
puntualizza Lu Yu con la sicurezza di un erborista guaritore, discaccia,
se gustato dopo i pasti, il più molesto torpore. Se consumato durante
il giorno, prosegue, “rafforza la capacità di pensare”. Se bevuto per
lungo tempo, conclude, “fa diventare
immortali”.
A Lu Yu è andata appunto così. Fu proprio quello il destino del
trovatello che venne raccolto sulle rive di un fiume (novello Mosè con
gli occhi a mandorla?) da un monaco buddista, che trascorse la sua
infanzia nel tempio del Dragone della Nuvola, che riluttante
all’istruzione religiosa e insofferente alle corvée monastiche fuggì dai
suoi padri adottivi con una compagnia
di saltimbanchi, che penalizzato sulla scena dal suo aspetto non bello e
da un fastidioso difetto di pronuncia si distinse invece per l’estro e
lo humour nel comporre copioni e canovacci, che fu notato da un
funzionario di corte e incaricato della formazione letteraria dell’erede
al Trono del Dragone, che preferì scomparire da palazzo durante una
rivolta e ritirarsi in montagna, passare al bosco, vivere nelle selve, e
che concluse i suoi giorni come “il vegliardo del gelso e del ramié”,
“l’eremita di Tiaoxi”, “il nuovo matto di Chu”, santone sapiente e
stravagante pronto ad assurgere come un Dio alle luminose corti celesti.
Gli appassionati che oggi bevono il tè in un modo affatto diverso da Lu
Yu – non più sgretolandolo da panetti duri ma in foglie e in bustine,
non certo scaldando l’acqua con legna forte e carbone ardente ma su
fornelli elettrici o a gas, giammai con tutta la feccia dalle “floreali”
evocazioni bensì in forma limpida, filtrata, talvolta sacrilegamente
zuccherata – possono ancora fare
salve certe sue dritte e indicazioni. Per esempio che la seconda e la
terza infusione sono le migliori. Che si dovrà continuare a berlo finché
è caldo perché le parti più buone si volatilizzano con il vapore. Che
la natura del tè è parca e frugale, estranea a ogni forma di eccesso,
mania, posa e affettata ostentazione. E ancora, come regola, stile –
“Canone” – di vita in generale, che “ohimè tutte le cose che il cielo
cura raggiungono un punto in cui si trovano al proprio meglio” perciò,
schivando “ciò che è superficiale e facile da conseguire” sarà bene non
lasciarsi sfuggire quel singolare e meraviglioso istante di perfezione.
Eventualmente calibrando dosi, temperature, tempi di infusione per
concedersi con l’animo accorto e sereno la più squisita tazza di tè.