Franz Rosenzweig dichiarò un giorno che il mondo ebraico tedesco aveva
manifestato un vero interesse per lui soltanto quando erano usciti i
primi volumetti della Bibbia ebraica nella nuova traduzione che stava
realizzando insieme all’amico Martin Buber.
Eppure, da alcuni anni il giovane filosofo era attivo a Francoforte come
direttore di un pionieristico istituto di cultura ebraica ed era noto
per avere scritto nel 1921 La stella della redenzione, un’opera di
grande respiro con la quale introduceva nella filosofia le categorie
fondamentali della tradizione biblica (creazione, rivelazione e
redenzione) e ridisegnava il travagliato rapporto tra
ebraismo e cristianesimo.
Gli scritti compresi nel presente volume furono elaborati per gran parte
negli ultimi anni della sua breve esistenza e sono tutti connessi –
benché in modi diversi – alla traduzione della Bibbia ebraica, impresa
che aspirava a confrontarsi con le grandi versioni bibliche del passato,
in particolare con quella di Lutero, da cui è scaturita la lingua
letteraria tedesca.
Ma lo scopo, non meno esplicito, della nuova traduzione era di liberare la Bibbia ebraica dall’involucro in cui l’avevano avvolta, appropriandosene, i cristiani.
La cristianità infatti aveva relegato i libri sacri degli ebrei – il
Pentateuco, i Profeti e gli altri Scritti – alla dimensione secondaria
di un «antico testamento», di un patto con Dio che era stato superato e
ricompreso nel Nuovo Testamento dei Vangeli, delle Epistole,
dell’Apocalisse. Tradurre la Bibbia ebraica in quanto tale significava
dunque emanciparla da questa sudditanza e svincolarla dalla prospettiva
che la vedeva come semplice profezia del messia Gesù, e quindi
unicamente in funzione del cristianesimo, il più fortunato dei suoi
esiti nella storia.