Recensioni / Letteratura e geografia

Rispetto ad altri incroci disciplinari, meno familiari ma sempre più frequenti, il binomio ‘letteratura e geografia’ sembra a prima vista uno dei più tradizionali e non comportare grosse difficoltà. D’altronde ogni programma di formazione umanistica prevede l’acquisizione di una buona preparazione geografica, il cui ausilio aiuta talora a inscrivere in un quadro condiviso le narrazioni storiografiche e letterarie, talora permette di localizzare i centri di produzione di cultura o i luoghi cruciali delle biografie dei grandi autori. Tuttavia non di questo – ovvero non dell’aggiornamento di una collaborazione tutto sommato deterministica nelle sue varianti ideologiche – tratta il volume curato da Francesco Fiorentino e Carla Solivetti, che si propone anzi di illustrare come negli studi letterari il sempre maggiore interesse per la geografia stia contribuendo a un generale ripensamento della disciplina e delle sue categorie critiche. Lo spatial turn, secondo diversi autori del volume, sembra nascere dalla crisi contemporanea di un modello epistemologico moderno che, attraverso il dispositivo della narrazione teleologica, avrebbe a lungo subordinato la dimensione spaziale dei fenomeni culturali ai ritmi di una temporalità lineare e progressiva. Vale la pena insistere su queste dichiarazioni di anti (o post)-modernità, perché la percezione di questa crisi sembra in ultima analisi essere l’unica radice comune alle varie pratiche e teorie che a questa ‘svolta spaziale’ possono essere ricondotte.

La pluralità degli approcci si riflette nel volume, che si compone di due parti facilmente distinguibili: una prima sezione teorica, in cui non mancano i riferimenti alle opere letterarie, ma in cui rimangono centrali la riflessione metodologica e l’elaborazione di modelli concettuali; una seconda parte in cui analisi testuali di opere notee meno note della letteratura russa permettono di misurare l’importanza di un immaginario geografico ben più complesso e discordante di quanto si è propensi a concedere.

I cinque saggi teorici, con felice complementarità, esemplificano altrettanti possibili approcci: geostorico, storico-letterario, culturalista, semiotico, filosofico. L’invito di Francesco Fiorentino a intraprendere una geostoria della letteratura sembra procedere in senso inverso rispetto alla proposta geocritica avanzata da Bertrand Westphal. Laddove lo studioso francese rileva l’esigenza di mettere i luoghi al centro della ricerca, rintracciando gli strati letterari e simbolici che li hanno costruiti come tali, Fiorentino al contrario suggerisce di rileggere la storia letteraria a partire dalle posizioni e dalle geografie personali dei diversi scrittori. Per sganciare la rappresentazione dei processi culturali dall’assetto centralistico e nazionale che la modernità ha loro conferito occorre per ogni testo individuare i luoghi mutevoli dell’enunciazione e dell’origine, compiere cioè un’operazione di localizzazione che insista sull’aspetto topografico di quella presa di parola in cui risiede il valore intrinsecamente politico dei prodotti letterari. In termini farinelliani, lo storico della letteratura, constatata la crisi dello spazio e della ragione cartografica moderna, dovrebbe ritornare ai luoghi, ma non tentando di ristabilire un (premoderno) assetto topologico, bensì adottando un approccio topografico, facendosi in altre parole rapsodo, cucitore di spazi, temporalità e luoghi disomogenei.

Al contenuto geografico delle più influenti storie della letteratura italiana del passato è dedicato invece il notevole saggio di Gabriele Pedullà, che individua e delinea le antitetiche caratteristiche di tre autorevoli precedenti: Girolamo Tiraboschi, Francesco De Sanctis e Carlo Dionisotti. La Storia tiraboschiana, sconcertante nella cronologia e nello spettro pressoché illimitato di scritture considerate, per quanto spesso – e a torto – ridotta a opera di bulimica erudizione, o alla meglio di consultazione, al contrario rispondeva a un preciso e ponderato disegno d’insieme, in cui la dimensione geografica – quella cittadina delle istituzioni politiche e culturali – fungeva da principio organizzativo e distributivo dei materiali. Un principio descrittivo che rivelava la profonda frammentazione politica della penisola e che non poteva dunque servire al progetto desanctisiano di indicare nella letteratura in lingua toscana un elemento di unità nazionale che attraversasse ininterrottamente sette secoli di storia italiana. De Sanctis rinuncia dunque alle partizioni della geografia politica, ma la sua narrazione riesce nondimeno ad articolare una rete di luoghi che assumono una forte valenza simbolica (la piazza, lacorte, il convento) e che si configurano in cronotopi di una storia e di un territorio nazionali: un’ossessione topologica che si rivela strategica e funzionale al disegno complessivo di trasformare la storia letteraria della penisola in storia politica e morale dell’Italia. Va da sé che la prospettiva di De Sanctis obbediva a un assunto romantico, quello dell’identità fra lingua e letteratura, che lo costringeva a eliminare dal racconto ampi settori della produzione letteraria, come quelli dialettali e in latino. Paradossalmente, osserva Pedullà, è proprio radicalizzando questo assunto che Dionisotti riesce per primo a mettere realmente in discussione la teleologia desanctisiana. Riportando l’attenzione al fattore linguistico, la grande costruzione narrativa incentrata sull’egemonia del toscano scricchiola rivelando una letteratura “improvvisamente plurale”, percorsa da conflitti e tensioni sotterranee, indicativa di un policentrismo letterario linguistico ancor prima che politico. È alla luce di questi riferimenti che Pedullà, dopo una poco serena polemica contro l’impianto dei volumi curati per Einaudi alla fine degli anni Ottanta da Alberto Asor Rosa (Storia e geografia), e assunti come anti-modello, espone il progetto, da lui recentemente diretto insieme a Sergio Luzzatto, dell’Atlante della letteratura italiana. A colpo sicuro è al disconosciuto magistero tiraboschiano che i curatori si rivolgono, per la scelta di far coincidere literature e literacy (ovvero di abbracciare tutta la civiltà della parola), per l’attenzione a tutte le diverse lingue adottate nei secoli dagli italiani, per l’accento posto sulle condizioni materiali e le istituzioni che hanno caratterizzato la produzione letteraria.

Dopo il saggio di Isabella Pezzini, che riassume gli elementi principali dell’approccio semiotico allo spazio letterario (in particolare quelli formulati da Greimas) e li applica al discorso utopico di Tommaso Moro, gli altri due interventi che completano questa sezione partono entrambi dall’urgenza storica di cambiare le categorie di interpretazione dei processi culturali del passato e del presente. La ferita coloniale, dice Iain Chambers, non può guarire, ma proprio per questo essa diventa il luogo dell’interruzione postcoloniale, che è interruzione della modernità occidentale e dei suoidispositivi – rigidità dell’inscrizione cartografica, regime scopico, teleologia del progresso. Solo l’arte dell’interruzione può riaprire l’archivio dell’Occidente e rivelare la presenza del nuovo nella ripetizione della modernità, di una modernità ancora in movimento, ancora da narrare, che segue un’economia musicale e che soltanto una critica marittima è in grado di cogliere. È la stessa insufficienza della moderna topografia di confine, la sopraggiunta impossibilità di continuare a delimitare nettamente gli spazi interni da quelli esterni, a spingere Dario Gentili a individuare nella soglia uno strumento concettuale capace di descrivere i processi culturali contemporanei. Per Derrida la soglia, in quanto linea indivisibile che separa il dentro dal fuori e al contempo spazio con-diviso in cui è possibile sostare e salvaguardare questa differenza, rappresenta un’insormontabile aporia. Secondo Gentili, che ritrova invece in Foucault la possibilità di pensare uno spazio duplice e non antinomico, la difficoltà incontrata da Derrida sarebbe insita nell’etimologia latina (solea da solum), in un radicamento al suolo che pone il problema insolubile di definire in senso spaziale la differenza. Tuttavia una nozione più fluida di soglia è rintracciabile, prima ancora che in Foucault (l’essere-soglia dell’uomo), risalendo alle forme che la parola assume in altre lingue: Schwelle in tedesco, umbral in spagnolo (davanzale), thresholdin inglese (gradino su cui trattenersi), invitano a ripensare la soglia non nei termini del suolo (solum) e del confine (finis), ma in quelli del limes, di una trasversalità, di un’obliquità che configura una zona di trasformazione piuttosto che istituire una linea di demarcazione. Come si può vedere, gli esiti qui rappresentati dello spatial turn negli studi letterari – seppur non incompatibili fra loro – in ultima analisi mettono in discussione il loro stesso assunto originario, basato su una netta contrapposizione fra spazio e tempo, secondo cui la modernità sarebbe stata l’epoca del tempo e la contemporaneità quella dello spazio. I contributi finiscono così al contrario per mettere in luce il fondamentale investimento spaziale connesso alle tecniche della modernità: dall’assetto centralistico del paradigma culturale nazionale (unità di fatto spazio-temporale) rilevato da Fiorentino, alla strategia topologica che organizza la narrazione desanctisiana (Pedullà), alla topografia di confine che ha contribuito in età moderna alla proliferazione delle eterotopie di devianza (Gentili). In crisi, allora, non è semplicemente l’idea di temporalità, ma un particolare paradigma spaziale in base al quale è stato possibile rappresentare con pretesa all’oggettività tanto lo scorrere del tempo storico quanto il movimento attraverso il territorio.

Altrettanto variegata è la seconda parte del volume, che conferma la costante presenza, nella letteratura russa, di una geografia morale, rivelandone al contempo il carattere dinamico, composito e plurale, a partire dagli assi geografici più tradizionali, che a ben guardare vanno incontro nel tempo a sorprendenti spostamenti e riposizionamenti. Boris Andreevič Uspenskij ci mostra così come l’opposizione Occidente/Oriente possa animare movimenti e orientare filosofie della storia nettamente contrastanti: fiduciosa diffusione dei lumi e della civiltà dalle metropoli avanzate ai confini orientali dell’impero per il voltairiano Puškin; cammino lungo cui lo spirito russo, inseguendo un’immagine illusoria, rinnega la propria asiaticità e cerca invano di farsi altro da sé, nella prospettiva rovesciata di Dostoevskij; contrapposizione che infine perde completamente di senso nella condanna generale lanciata dal roussoviano Tolstoj alla disonestà e all’artificialità di ogni cultura. Secondo Carla Solivetti è invece l’asse Nord/Sud che orienta moralmente il viaggio ideale di Čičikov nelle Anime Morte di Gogol: è alla luce di questo movimento, che ripercorre la via dai Variaghi ai Greci e che lega le origini del potere statale alle origini dell’identità religiosa, che è possibile leggere le enigmatiche deviazioni del protagonista, alle quali non manca nemmeno un preciso referente storico e simbolico: il viaggio imperiale effettuato da Caterina II nel 1787. Indispensabile alla costruzione letteraria di questi assi è inoltre un’idea di confine che non di rado conduce fatalmente alla tragedia: teatro in cui si consuma il dramma della libertà e del sacrificio (la figura di Sten’ka Razin nella tradizione folclorica della Volga; Lena Szilard) o ancora luogo di un attraversamento in cui fallisce ogni possibilità di incontro con l’alterità (Marija Virolajnen). Altrettanto carica di implicazioni metafisiche è la topografia urbana, ricostruita con precisione toponomastica, attorno a cui si articolano i diversi piani narrativi del Maestro e Margherita di Michail Bulgakov (Rita Giuliani), in cui le città di Mosca, Gerusalemme e Roma si sovrappongono, sfidando le contemporanee riscritture staliniane dello spazio cittadino, le stesse che nel frattempo stavano istituendo un altro cronotopo letterariamente molto produttivo del byt (vita quotidiana) sovietico: la kommunalka, l’appartamento in coabitazione (Laura Piccolo).