Recensioni / Tessa, l'avvocato delle parole perse

Tutto cambia ma Milano cambia di più. Mi sono immerso in un libro di milanesismo totale, La bella Milano di Delio Tessa (Quodlibet, pagg. 413, euro 16), uscendone turbato. Perché la città della Madonnina vi risulta del tutto irriconoscibile, e pensare che Tessa non è un autore medievale, non è mica Bonvesin de la Riva, è un avvocato-giornalista-poeta morto nel 1939, anno in cui molti lettori erano già nati e se non i lettori i genitori dei lettori, e se non i genitori i nonni. Non sto parlando della XII dinastia egizia: nel '39 dentro o appena fuori la cerchia dei Navigli già sgambettavano Franca Valeri e Ornella Vanoni, Bernardo Caprotti dell'Esselunga e Natalia Aspesi di Repubblica, il gran cardinale Biffi e il gran jazzista Gaslini, e poi Gualtiero Marchesi, Elio Fiorucci, Carla Fracci, Celentano, Berlusconi... Eppure quello raccontato da Tessa sembra un altro mondo e perfino un altro spazio. Se leggo un libro sulla Roma di una volta, o sulla Napoli di una volta, o anche sulla Firenze o sulla Bologna di una volta, pur essendo trascorso tanto tempo riesco comunque a orizzontarmi, mentre a Milano in meno di ottant'anni sono saltati quasi tutti i riferimenti. È questione anche geografica: se una città dispone di mare o almeno di fiume, lago, laguna o collina, i secoli e gli assessori per quanto si impegnino non glielo potranno rubare. Quel cretino fosforescente di Marinetti voleva asfaltare il Canal Grande ma grazie a Dio non ci è riuscito, i Navigli invece sono stati seppelliti davvero, lasciando in vita, e vita si fa per dire, due o tre monconi periferici che mettono tristezza solo a guardarli.
La bella Milano del Tessa è una Milano dove tutti parlano in dialetto e in cui la nebbia è talmente fitta che rischi di andare a sbattere contro i lampioni. Nebbia e dialetto: due illustri dispersi. Una vera nebbia milanese io credo di non averla vista mai, al massimo qualche foschia, niente che somigli alla descrizione di pagina 175: «Si camminava a tastoni rasente ai muri da un fanale a gaz a un altro fanale... a casa... a casa presto!». Da quando i fanali non sono più a gas, o gaz che dir si voglia, la città è meno pittoresca ma pure meno pericolosa. Non mi sembra pertanto il caso di dire che si stava meglio quando si vedeva peggio. Invece la scomparsa del dialetto (che non ho mai parlato e che, se per miracolo resuscitasse, farei fatica a capire) è una perdita secca. Il linguista comunista Tullio De Mauro, già ministro della Pubblica istruzione e ora presidente del Premio Strega, insomma uno squisito esponente del culturame, ha recentemente giurato sulla vitalità del dialetto. Ma dove vive? Di sicuro non a Milano. Dovrebbe leggere Tessa e poi, per aggiornarsi, fare un giro in centro. In La bella Milano troverà elzeviri e cronachette di fine anni Trenta in cui parlano dialetto i vecchi e i bimbi, i perbene e i permale, i marchesi e le lattaie, gli studenti e i professori (del liceo Beccaria, mica di una scuoletta qualsiasi)... Parlavano milanese stretto i bancari, gli avvocati, perfino i librai-editori Baldini e Castoldi che quando l'autore cercò di farsi pubblicare un libro di versi risposero: «La poesia l'à faa el so temp, incoeu la và pù». Meglio un rifiuto nella lingua del Porta che l'odierno, burocratico «Siamo spiacenti di comunicarle che la sua opera non rientra nei nostri piani editoriali».
De Mauro dovrebbe, per l'opportuno confronto, farsi una bella passeggiata come quella che ho fatto io poche settimane fa, in via Dante e via Torino: chilometri di negozi quasi tutti appartenenti a catene dove fra insegne anglofone, commesse slave e clienti di carnagione scura ho avuto la spaventosa impressione della morte dell'italiano, altro che vitalità del dialetto. Provi poi a rivolgersi in milanese a un commesso della Feltrinelli, sai le risate che ci facciamo.
Delio Tessa era un nostalgico ma non c'è bisogno di essere passatisti per apprezzarlo. Io che sono un presentista ho provato vero piacere a leggere le svelte prose di questo letterato amabile, avvocato con pochi clienti, poeta senza editori, giornalista a tempo perso, che si aggirava per Milano raccogliendo storielle negli ambienti più disparati. Molto devoto e molto peccatore, dopo la sua morte si disse che era «tutto chiesa e case chiuse». Prima, invece, pare fosse soprannominato «l'avocatt porscell». Avrebbe potuto essere un Bukowski nostrano e scrivere qualcosa tipo Taccuino di un avvocato sporcaccione ma la censura, o l'educazione borghese, glielo hanno impedito.
Restano le poesie in dialetto e questa raccolta di articoli che dire in italiano è dire troppo, da tanto sono infarciti di milanese saporitissimo.