Parlare di un libro di Gianni Celati è sempre difficile. La prima tentazione, quasi un riflesso, è infatti raccontarne la storia, la trama
- come si fa di solito con tutta la narrativa che viene stampata. Qui,
in questo nuovo libro appena uscito nella collana Compagnia Extra di
Quodlibet, di storie ce ne sono ben quattro, ma come spesso in Celati
anche in questi racconti inediti a contare non è tanto l’intreccio, ma
la prosa leggera, il lessico impercettibilmente incongruo, la gag
imprevista e il ritmo ventoso conforme ad un’idea di narrativa come
trasporto sul filo della mutevolezza del tempo.
I personaggi di questi racconti di Selve d’amore, sono gli stessi dei precedenti volumi posti sotto la rubrica Costumi degli italiani.
Ritroviamo la stessa città di provincia con i quartieri socialmente e
moralmente connotati, gli stessi adolescenti spersi e pascolanti e
soprattutto le medesime scene familiari a far da palco privilegiato alle
gag comiche dell’incomprensione umana. Il tutto condotto con una
scrittura panoramica modulata da un imperfetto che mantiene l’azione
dentro un circolo routinario, quasi senza tempo. Da lì vengon fuori i
mattoidi celatiani parenti degli strampalati personaggi di Chaplin, di
Beckett o Michaux, quasi a sgorgare spontaneamente con il flusso di un
raccontare leggero, semplice, giusto e senza intoppi, con un narratore
personaggio tra i personaggi a far da cerimoniere alla maniera della
nostrana tradizione novellistica.
Questi racconti, come sempre in Celati, sono anche però un esercizio del
rendersi perplessi mettendosi in gioco. Cioè mettendosi all’altezza
della morte, dove un’oscura necessità può certamente rendere perplessi
noi che siamo abituati a riscacciarla dietro la coltre solida della
realtà tecnologica. Più in generale si coglie in questi racconti
l’impressione che il tempo programmato della modernità sia solo
un’illusione burocratica per ridurre l’esistenza all’anonimato di una
grande macchina utilitaria. Ma anche l’idea che la vita, in fondo, non
si fa amministrare, che più che la programmazione del tempo vuoto, a
muoverla di qui o di là, ci sia questo strano e indefinito cuore mosso
dai desideri, i quali non si sa bene cosa siano, ma che
incontestabilmente ci sono, e ci fanno scoppiare in fughe improvvise, a
volte ridicole, più spesso comiche – come quando il narratore
adolescente scappa di casa per inseguire in bicicletta la signora Guzzi;
o come quando la signora Malacesa col figlio Mala fuggono dal
matrimonio per non soffocare. I personaggi celatiani, spesso tipi
stilizzati – il generale, il politico, il prefetto, il sindaco,
l’anarchico – sono così mossi dalle brame dell’amore e del sesso, del
denaro e il potere, del menar vanto e dalla vanagloria, tutti come
rinchiusi in un ariostesco castello d’Atlante all’inseguimento
dell’immagine vana del loro desiderio. Non son forse queste le Selve d’amore del titolo che cita Ariosto?
L’effetto è quello d’una etnologia immaginaria figlia della migliore
tradizione novellistica o surrealista. Da cui si capisce anche che le
pulsioni desideranti son più vere in termini esistenziali che le vite ben amministrate dentro cui non trovano posto. Il vecchio nonno di Pucci - ne La notte che chiude il volumetto e spicca per la misura di una prosa che si tiene miracolosamente in equilibrio tra immaginazione e speculazione - è quasi l’emblema di questa perfezione amministrativa vuota.
Nel suo piccolo terreno, di spalle al cimitero, preludio al prossimo
passo, organizza il suo mondo in perfetta simmetria. Tutto è al suo
posto, i martelli coi martelli, i cacciavite con i cacciavite, tutto
ordinato dal più grande al più piccolo. Solo che il vecchio nonno, da
quando la moglie è morta, è affetto da una demenza senile piuttosto
pronunciata. Se ne ricava l’impressione che questa razionalità
amministrativa del durare sia allora solo il sogno di un’umanità
invecchiata nell’illusione demente del futuro progressivo e tecnologico
dove non c’è posto per i corpi e i desideri. Dove questi non possono che
avere l’incedere incongruo di chi non riesce ad essere come dovrebbe,
come in certe comiche mute d’antan. Ecco, alla fine allora la vera
liberazione è smettere di adeguarsi ad un’idea di futuro del genere,
sembra dirci in tralice la prosa celatiana. Smettere di attendere per
cogliere invece nella presenza il mistero dell’esserci nell’aperto del
mondo, dove non c’è riparo che tenga, ma solo un trascorre di ogni cosa
nel mutare della luce; dove l’esserci è l’esserci di ogni giorno, da
sempre, senza speranza, cioè senza attesa di essere diversi da quello
che si è digià.
Nel racconto finale, a mo’ di congedo, nell’ultima notte prima di essere
portato in manicomio, l’amico Pucci è nello stanzone del nonno insieme
alla madre, nell’oscurità notturna, in un buco
nero «insieme a tutto quello che c’era intorno, le cose usuali che sono
solo quello che sono». Poi alla prima luce d’oriente si va «col pensiero
verso quella luce, che non è nessuna speranza, è
solo un giorno uguale a tutti gli altri che sta per cominciare. Ma
questo è il buono della faccenda: tu aspetti il giorno ancora una volta,
senza aspettarti niente, soltanto perché ci sei, e sei lì da
buon carcerato, come se fosse il mattino della tua liberazione». È il
sollievo di non dover più aspettarsi qualcosa, perché tutto quello che
ci aspettavamo l’avevamo già sempre presso di
noi, anche se non era granché.
Le storie di Celati finiscono spesso con questi congedi che son punti di
risucchio in cui la trama si sospende insieme alla tribolazioni. Ma La notte ci sembra assumere un rilievo particolare tra i racconti dei Costumi degli italiani. Tutto il racconto, e
la scena della notte passata da Pucci con la madre in particolare,
sembra avvolto da un’atmosfera che non si può che definire leopardiana.
Non solo perché si tratta di un notturno, ma perché le ombre della notte
(e della morte), qui come in Leopardi, non son più qualcosa di
angoscioso, ma un limite che si affronta con serenità interrogativa. Il
leopardismo celatiano però, figlio del Novecento, fa un passo ulteriore
sulla via dell’abbandono del desiderio (o ansia) di durare, della
sottomissione agli scopi, che è l’illusione antropologica centrale
dell’essere mortale umano e delle sue macchine. E ci offre così una
critica del presente che è anche una sua messa a distanza che riconcilia
con una vitalità profonda e materiale.