«L’utopie c’est la réalité de demain». L’affermazione di Le Corbusier è
ben chiara a Giancarlo De Carlo quando, nel ’72, viene invitato a
relazionare circa “il futuro dell’architettura” al Royal Australian
Institute of Architects. Quella conferenza diverrà, per l’architetto genovese, lo spunto per
approfondire una sua personale visione dell’architettura che si fonda
sulla necessità di tradurre costantemente il progetto in processo, in
opera aperta capace di accogliere la forza biografica e narrativa prima
che teorica.
Con una precisa urgenza rispetto alle piccole e grandi miserie in cui
versa buona parte del paesaggio costruito italiano e ad una certa apatia
critica che sta attanagliando le facoltà di architettura, Quodlibet
ripubblica l’intervento di De Carlo in questa conferenza arricchendola
con due saggi dello stesso autore, il primo sul Piano per il centro di
Rimini e l’altro sul famoso progetto del villaggio Matteotti di Terni.
Ne risulta un agile pamphlet - L'architettura della partecipazione -
spunto da cui ripartire col dibattito sul futuro delle nostre città.
La forza che traspare da questo saggio è quella di un progettista che si
interroga criticamente sulla sua disciplina, ne cerca il senso
profondo, ne giudica i fallimenti ed i successi portando alla luce
quella che in definitiva è un’idea militante dell’architettura, liberata
dal luogo comune e dal dato di fatto. Un’architettura “narrativa”,
capace di ascoltare, accogliere, annettere quelle che sono le tensioni
della città e dei suoi abitanti. Un’architettura che deve farsi
“processo”, scardinando la visione consolidata dell’edificio come un
unicum perfetto e concluso.
Per fare ciò De Carlo utilizza l’arma della partecipazione, permeando il
processo progettuale con la vita e le istanze dei suoi utenti futuri,
impegnandosi su un piano più profondo e superando la concezione
dell’architettura come fatto meramente creativo. In questo senso «non
serve una teoria della partecipazione ma [...] l’energia per uscire
dall’autonomia», per “sporcarsi le mani” per “contaminarsi” con il
luogo. Solo mettendo costantemente in crisi i principi di
«incontaminazione, autonomia, autosufficienza» che hanno lentamente
appesantito l’architettura moderna rendendola impermeabile al suo
pubblico, per De Carlo, l’architettura diventa «utopia realistica»,
costruttrice di un’idea di comunità.
L’architettura si può dunque salvare se diventa parte integrante del
processo culturale di una comunità, se la partecipazione diventa il
mezzo con il quale la società costruisce il suo orizzonte di esistenza,
il suo “spazio”.
E ciò è valido ancora oggi, nonostante la pratica della partecipazione
rischi di diventare abusata anche perché molto spesso utilizzata dalla
politica per ammantare di falsa trasparenza attività più o meno
speculative. La partecipazione infatti, pionieristica negli anni in cui
scriveva De Carlo, è diventata sempre più un’arma nelle mani delle
amministrazioni per allargare indiscriminatamente la rosa degli attori
potenzialmente coinvolgibili in un processo urbano, dilatando
sensibilmente i tempi della decisione ma costruendo una forte base di
consenso.
Questa “istituzionalizzazione” della partecipazione, in contrasto con la
sua originale componente “anarchica”, l’ha resa parte integrante del
processo economico contemporaneo costringendola in una “gabbia”
normalizzante e accettabile che in ultima analisi è servita più alla
preservazione di un sistema che al suo scardinamento, facendo entrare in
crisi la nozione romantica di partecipazione e rendendola un processo
fortemente verticale.
La disillusione con cui oggi sono percepite le scelte politiche, il
senso di subalternità con il quale si confrontano i cittadini di fronte
alle modificazioni della città porta con sé la necessità di rivedere
drasticamente il concetto di partecipazione, a favore di un ritorno alla
sua componente conflittuale, militante, originale. Una ricerca che
liberandosi dell’istituzionalizzazione della partecipazione, la riporti
nelle strade attraverso le nuove pratiche della collaborazione e della
mixité disciplinare e professionale, costruendo un ulteriore strato
critico tra il luogo della politica e i cittadini, ristabilendone così
l’orizzontalità.
In quest’ottica il libro di De Carlo diventa una piattaforma da cui
partire alla ricerca di un nuova prospettiva, un invito alla “rivolta”, a
superare l’assuefazione ai luoghi comuni, un inno alla contaminazione.
Solo così l’architettura sarà «sempre meno la rappresentazione di chi la
progetta e sempre più la rappresentazione di chi la usa».