Recensioni / Il dito e la luna

La sera del 20 luglio 1969 tutti gli italiani, grandi e piccini, erano seduti davanti al televisore per vedere lo storico momento in cui il primo uomo avrebbe messo piede sulla Luna.E poco importa se Tito Stagno (dallo studio) e Ruggero Orlando (da Houston) non riuscirono a mettersi d' accordo sull' esatto istante dell' allunaggio. Al di là di quell' esilarante battibecco, si trattò di una nottata indimenticabile: una sorta di irripetibile compendio della hybris moderna e assieme la prima, evidente irruzione del postmoderno, visto che l' ultramillenario sogno dell' altrove cosmico e i prodigi portentosi della tecnica ora marciavano uniti grazie al mezzo televisivo. Senza il quale l' intera avventura spaziale avrebbe perso qualunque attrattiva e mordente. Eppure, ecco la vera sorpresa, dopo quella serata l' interesse attorno alla conquista della Luna andò bruscamente scemando, salvo un nuovo, momentaneo sussulto l' anno successivo, in occasione della disastrosa impresa di Apollo 13. Stavolta, però, fu soltanto l' attesa di un' eventuale catastrofe a tenere avvinti i telespettatori: la ferrea logica dello spettacolo, per quanto sinistro, aveva preso il sopravvento. Ora questo storico tragitto ultraquarantennale - misteriosamente rimosso dalla nostra memoria - viene ripercorso in modo quanto mai originale da Stefano Catucci nel suo libro Imparare dalla Luna (Quodlibet, pagine 206, 19 euro), in cui il lettore viene invitato a pensare il futuro cercando finalmente di fare tesoro dell' esperienza passata. Già, perché la vicenda spaziale è tutt' altro che conclusa. Anzi, ci attendono succose novità: ad opera delle diverse nazioni e prima ancora dei grandi consorzi privati (come Google, Amazon, Paypal) che guardano con estremo interesse alle esplorazioni su Marte e alle prime forme di turismo lunare, quando i futuri visitatori entreranno in contatto con i primi parchi archeologici extraterrestri, voluti dalla Nasa per proteggere i resti delle diverse e successive spedizioni Apollo. Ha ragione Catucci: c' è un indubbio risvolto comico in una decisione che presuppone l' esistenza di una sorta di «sovraintendenza cosmica» volta a preservare «rottami, imballaggi, frammenti di sondee di capsule precipitate al suolo». Ma c' è anche, per converso, il malcelato tentativo di ribadire con forza la volontà di potenza americana, quasi una sorta di coda ideale all' aspro confronto con i sovietici che animò gli anni sessanta e settanta. Anche se è proprio lungo questo crinale di gara spasmodica che si consumò anzitempo il fascino dell' avventura spaziale, una volta chiarito l' usuale meccanismo della "coazione a superare" di canettiana memoria: al primo satellite artificiale in orbita, segue la prima cagnetta nello spazio; al primo uomo in orbita, il primo allunaggio umano, etc.etc. Sempre, beninteso, con le bandiere dell' una e dell' altra potenza a rimarcare il "possesso" di nuove porzioni dello spazio siderale. Secondo Catucci, al contrario, se quella stagione conserva ancora il suo fascino è in virtù degli elementi più extravaganti e ludici. Come la meraviglia infantile degli astronauti davanti alle orme lasciate sul suolo lunare, le strampalate passeggiate di chi, a fronte di una forza di gravità ridotta a un sesto rispetto a quella terrestre, si trova a saltellare come un canguro. E ancora: l' attrezzatura da golf che l' americano Alan Shepard (duramente ripreso dalla Nasa) porta con sé, lanciando palline nel nulla; o le foto famigliari lasciate come altrettanti ex voto cosmici su questa landa desolata. Per non parlare dello straordinario contraccolpo che le prime immagini della Terra vista dallo spazio determineranno nella «formazione della coscienza ambientale». Basti pensare, ricorda Catucci, a quanto scrisse Lovelock nel suo celebre Gaia: la vera, grande conquista delle esplorazioni spaziali è «la scoperta della bellezza globale ( global beauty) del nostro pianeta», della sua unicità. È uno dei punti chiave del libro e per approfondirlo l' autore ci invita a osservare in parallelo due immagini. La prima, Earthrise, è una foto scattata da William Anders dell' Apollo 8 il 24 dicembre del 1968 da una distanza di circa 385.000 km. La seconda, The Blue Marble, è scattata da Harrison Schmitt dell' Apollo 17 il 7 dicembre del 1972 da una distanza di circa 50.000 km. La seconda fotografia, molto più ravvicinata e dunque più nitida, raffigura per intero il globo terrestre, facendo vedere con precisione il continente africano, l' isola del Madagascar e la penisola arabica. Ma in mancanza di qualunque contestualizzazione cosmica, quel mappamondo che vaga nel vuoto non produce racconto e pertanto l' immagine risulta inerte, fredda, come per l' appunto può essere il marmo. Earthrise, al contrario, è emozionante, struggente. In primo piano, si presenta una specie di balconata grigia e deserta, quella della superficie lunare; mentre sullo sfondo, in mezzo al più assoluto buio spaziale, sorge la Terra, nella sua più vivida luminosità. L' emozione nasce proprio da qui: grazie a un occhio "lunare" - che ci impone una relazione nuovae diversa sia con la nostra Heimat planetaria, sia con l' irriducibile alterità del nostro "vicino" cosmico - finalmente ci vediamo da fuori. L' arrivo sulla Luna, scrive ancora Catucci, «è stato condizionato da così tante preoccupazioni terrestri che la sua alterità è stata attenuata, domesticizzata e dunque in gran parte mancata. Di fronte a una simile occasione incompiuta, la scoperta della Terra, che pure aveva rappresentato il momento più significativo dell' avventura lunare, non poteva che rimanere a sua volta parziale, un processo interrotto». Vediamo di non perdere anche la seconda occasione che a breve ci attende: impariamo dalla Luna, qual è il modo migliore per lodare la Terra.