Auto e ambulanze. Autobus, metropolitane e treni. Piedi, biciclette e
cavalli. Barche, chiatte e camper. Le cave romane di tufo rosso che
ospitavano i carnevali ottocenteschi degli artisti tedeschi e la più
grande discarica d’Europa. La fattoria modello di Mussolini e il
“serpentone” di Corviale. I campionati di danza del Palacavicchi e le
cubiste sui banconi dei bar. I piccoli e grandi accampamenti, le vecchie
borgate dei pastori e le gigantesche architetture sociali. Le piste per
le macchinine e il palmologo in crociata esistenziale contro la piaga
del punteruolo rosso. Le tombe pop del cimitero Laurentino e il
quartiere dei fumetti. La guerra per le anguille sul Tevere e gli
“smorzi” dei pezzi di ricambio. Le Fosse Ardeatine e la casa di Saddam
Hussein. Le transumanze dei pastori e le oasi equatoriali. L’archeologia
industriale e quella classica. L’Isola dei Lampadari e la Little Cuba.
La Riserva dell’Insugherata e la Fender di Jimi Hendrix…
“Indie di quaggiù”, fu la famosa espressione coniata nel Cinquecento dal
gesuita Silvestro Landini, per indicare ai missionari che accanto
all’evangelizzazione di terre lontane c’era anche da fare un lavoro
immenso tra le popolazioni delle aree marginali della stessa Italia e
Europa, spesso immerse ancora in un universo di credenze pre-cattolico e
pre-cristiano. Nato ad Asmara, con studi a New York e doppia
cittadinanza italiana e statunitense, il regista Gianfranco Rosi – nella
postfazione a questo libro che ha ispirato poi il suo documentario
Leone d’Oro alla settantesima Mostra internazionale di arte
cinematografica a Venezia – spiega di aver conosciuto un circuito
mentale di tipo analogo: “Dopo anni passati in India, negli Stati Uniti e
in Messico, l’idea di raccontare un luogo per molti aspetti vicino alla
mia realtà quotidiana sembrava non appartenermi: sono sempre stato
attratto dal mistero rappresentato dai luoghi lontani dalla mia
esperienza. Mai avrei pensato di potermi soffermare su Roma, né avrei
creduto che una realtà così prossima potesse soddisfare il mio senso di
avventura”. Invece attorno a Roma si muovono il regista, il paesaggista
Nicolò Bassetti e il giornalista e scrittore Sapo Matteucci, impegnati
in un “viaggio di esplorazione” cominciato nel 2010 con gli oltre
trecento chilometri a piedi persorsi da Bassetti. E hanno scoperto un
mondo talmente ricco di esotismo e alterità antropologica che ne è nato
un “progetto”: un’immensa fatica multimediale in cui accanto al libro e
al film stanno anche un sito web e una mostra. Con un’avvertenza. Il
film, che di questo “progetto” è diventato l’aspetto più famoso, è
un’opera altamente sperimentale: immagini di grande impatto visuale ma
senza il minimo accenno di commento esterno o intervista, che ha
entusiasmato una gran parte della critica, ma ne ha pure lasciato
perplessa un’altra parte per l’assoluta radicalità del suo linguaggio
rispetto alle tradizioni del genere documentaristico. Lo spettatore non
si annoia di certo, ma il libro rimedia a possibili incomprensioni
perché è addirittura pignolo nel modo in cui alterna il racconto a
schede e carte. Ma questo libro vive anche di vita propria rispetto al
film, perché si dimostra un originale baedeker con cui partire alla
conoscenza di una Roma inaspettata, da scoprire in auto, ambulanza,
autobus, metropolitana, treno, piedi, bicicletta, cavallo, barca,
chiatta, camper… Anche il modo in cui il nome di quell’ingegner Eugenio
Gra, direttore dell’Anas e ideatore dell’opera, è stato poi trasfigurato
nella sigla di Grande Raccordo Anulare, suggerisce forse che siamo in
presenza di una realtà multiforme e quasi pirandelliana: dove niente in
realtà è come sembra, e l’apparenza più familiare può celare le più
straordinarie sorprese.