Adriano Olivetti morì alla fine di febbraio del 1960 e uno degli articoli
commemorativi di più intensa partecipazione lo firmò Le Corbusier. «Egli
desiderava realizzare il sogno di una nuova società sulla terra e non
lo rimandava a scadenze irnprecisate», scriveva l'architetto. La morte,
improvvisa e prematura (l'ingegnere non aveva sessant'anni), giunse
mentre fra Olivetti e il progettista prendeva corpo l'intesa per
costruire la sede del nuovo Centro di calcolo elettronico, cioè dello
stabilimento in cui sarebbero stati alloggiati i progenitori dei
computer, le macchine alle quali l'azienda d'lvrea lavorava dalla metà
degli anni Cinquanta e che avrebbero aperto le porte all'informatica.
Una rivoluzione, suggellata dall'incontro fra due persone che si erano
avvicinare più volte nei decenni, si erano cercate e studiate, ma che si
erano solo sfiorate, nonostante la sintonia su che cosa dovesse fare
un'industria, su come dovesse esser costruita e dovesse riflettere un
certo tipo di organizzazione sociale.
Ma anche quel momento durò pochissimo. Appena un contatto, prima che
Olivetti morisse. Le Corbusier continuò a lavorare per l'azienda di
Ivrea insieme a Roberto, il figlio di Adriano, e mise a punto il progetto
diun grande stabilimento che sarebbe dovuto sorgere a Rho, in una zona
di campagna a nord-ovest di Milano, lungo l'autostrada per Torino. Lo
stabilimento non fu mai costruito, ma restano i progetti, i disegni e i
calcoli. E resta, come un sedime culturale, il dialogo a distanza di due
intelligenze novecentesche che credono nell'innovazione, nel senso di
comunità che parte dalla fabbrica e si estende a un territorio e a una
città concepiti sulla misura dell'uomo.
Questa avventura è raccontata da Silvia Bodei in un libro che esce da Quodlibet e che s'intitola Le Corbusier e Olivetti. La Usine Verte per il centro di calcolo elettronico (Bodei ha studiato i documenti della Fondazione Adriano Olivetti, dell'Archivio storico Olivetti e della Fondazione Le Corbusier). La Usine Verte è la "fabbrica verde" di cui Le Corbusier parla in un libro del 1945. Le trois établissements humains, che le olivettiane Edizioni di Comunità pubblicano nel 1961 (I tre insediamenti umani).
L'architetto, così sensibile alla "società macchinista", immagina che
alla "fabbrica nera", simbolo di una fatica alienante, si sostituisca la
"fabbrica verde", «che ristabilirà intomo al lavoro le "condizioni di
natura"». Per cui «sole, spazio, verde, apporteranno qui, come nei
quartieri residenziali, le influenze cosmiche, la risposta al respiro dei
polmoni, le virtù dell'aria, come la presenza di quell'ambiente
naturale che accompagno la lunga e minuziosa elaborazione dell'essere
umano». È il modello di fabbrica che concepisce Olivetti.
Per Olivetti non è una scoperta che matura sul finire della vita. L'idea
di una fabbrica che incorpori il paesaggio circostante e che
contribuisca a creare nuovo paesaggio è costante lungo gli
anni Trenta e poi negli anni Cinquanta. Dagli oggetti prodotti in serie -
le calcolatrici, le macchine per scrivere - fino alla pianificazione di
una regione, Olivetti traccia un assetto sociale fondato sullo spirito
comunitario, che procede dal design della portatile MP1 (Aldo Magnelli),
della Lettera 22 (Marcello Nizzoli) o dell'elaboratore Elea9003 (Ettore
Sottsass), all'urbanistica. E nella catena la fabbrica è un punto di
cerniera. Questo pensiero sorregge l'incarico a Luigi Figini e Gino
Pollini di ampliare lo stabilimento di Ivrea, fino ai nuovi edifici di via
Jervis, è replicato invitando Ignazio Gardella a realizzare la mensa, e
continuato con le case per gli impiegati (ancora Figini e Pollini) e
con le altre abitazioni (Nizzoli e Annibale Fiocchi). La catena - qui
accennata per grandi line e- prosegue con la pianificazione territoriale
della Val d'Aosta, del borgo rurale La Martella a Matera (Ludovico
Quaroni, Federico Gorìo, Piero Maria Lugli e altri), del quartiere
romano di San Basilio (Mario Fiorentino).
Già negli anni Trenta, comunque, il riferimento a Le Corbusier è costante. Il pan de verre,
le grandi pareti vetrate adottate da Figini e Pollini recano la matrice
del maestro svizzero e traducono il principio della trasparenza
sociale, capace, scrive Bodei, «di dare un'immagine di dignità al lavoro
operaio e comunicazione continua con il contesto e il paesaggio
circostante». Comunicazione continua che ispira, vent'anni dopo, lo
stabilimento di Pozzuoli, progettato da Luigi Cosenza e raccontato da
Ottiero Ottieri in Donnarumma all'assalto. «Così di fronte al
golfo più singolare del mondo», dice Olivetti facendo risuonare l'eco di
Le Corbusier, «questa fabbrica si è elevata, nell'idea dell'architetto,
nel rispetto della bellezza dei luoghi, e affinché la bellezza fosse di
conforto nel lavoro di ogni giorno».
Sulle iniziative di Le Corbusier in Italia si è svolta una grande mostra
al Maxxi di Roma alla fine del 2012 (curata da Marida Talamona) e dei
rapporti fra Olivetti e il progettista si sono occupati Giorgio Ciuoci e
Paolo Scrivano. Silvia Bodei approfondisce l'indagine. Nel 1934 sono
documentati i primi contatti fra l'architetto e l'imprenditore che
vorrebbero costruire fabbriche non alienanti in territori che siano
spazi di comunità. I due sembra si scambino colpi di fioretto. Le
Corbusier, sapendo dell'intenzione di Olivetti di realizzare un
quartiere per i dipendenti, «con grande disinvoltura e autorità»,
sottolinea Bodei, si propone di essere lui il progettista. Ma - è la
replica di Olivetti - sono stati già designati Figini ePollini, che Le
Corbusier conosce bene e dai quali è considerato un nume tutelare. Due anni dopo Le Corbusier e
Olivetti s'incontrano a lvrea per visitare l'area dell'intervento. Le
Corbusier insiste: avanza una serie di obiezioni a Figini e Pollini,
vuole avere comunque un ruolo in quel progetto. Ma la resistenza dei due
giovani architetti, pur di fronte al venerato maestro, è ferma. E
Olivetti è d'accordo.
Seguirà un silenzio lungo quasi vent'anni. Nel 1953 Le Corbusier si rifà
vivo con l'ingegnere di Ivrea, vuole importare nel proprio studio i
metodi comunitari olivettiani. Adriano è intanto impegnato più di prima
sul fronte urbanistico (dal 1950 presiede l'Inu, l'Istituto nazionale di
urbanistica), le Edizioni di Comunità pubblicano Lewis Mumford. E
inoltre procede con straordinaria efficacia la sperimentazione sui
calcolatori elettronici. Nel 1957 vengono realizzati i primi elaboratori
(Elea 9001 ed Elea 9002) e l'anno successivo sotto la guida di Mario
Tchou nasce l'Elea 9003, primo calcolatore al mondo interamente
transistorizzato. L'Olivetti è diventato un gigante in continua
espansione. Ed è in questo contesto che viene redatto un documento, di
cui c'è solo una versione dattiloscritta, intitolato Ragioni che
dispongono a favore della scelta dell'Arch. Le Corbusier per la
progettazione del nuovo stabilimento elettronico Olivetti. Il testo,
spiega Bodei, «mette in evidenza che l'opera dell'architetto è stata la
principale fonte d'ispirazione nella realizzazione degli stabilimenti
dell'impresa dal 1936 in poi». E questo sia per la filosofia generale, sia
per i dettagli progettuali. L'incarico viene affidato a Le Corbusier,
che il 10 febbraio del 1960 scrive ad Adriano ringraziandolo e
confermandogli che lo appassionano «i temi relativi alla civiltà
macchinista», soprattutto quando sono fondati «sul valore umano e sul
binomio Uomo-Natura e finalizzati alla ricerca dell'armonia». Sembra di
essere sul bordo di un futuro radioso. O di un precipizio. Il 27
febbraio Olivetti è ucciso da un infarto mentre un treno lo porta in
Svizzera. Le Corbusier prosegue lo stesso il lavoro, ma nel 1961 Mario
Tchou muore in un incidente stradale, per alcuni misterioso, e nel 1964
l'Olivetti è costretta a cedere il ramo elettronica alla General
Electric. L'azienda di Ivrea e l'Italia perdono il primato conquistato. E
dello stabilimento di Le Corbusier restano i disegni, il fermento culturale e molto rammarico.