Recensioni / Stefano Catucci e il lato nascosto della scoperta

Stefano Catucci insegna Estetica alla Facoltà di Architettura de La Sapienza e Collabora con Rai-Radio3. Imparare dalla Luna è un percorso affascinante che parte dalla ricerca, attraversa la didattica e la Storia e guarda al futuro. Nel racconto dei programmi spaziali che hanno portato l’uomo sulla Luna, Catucci si chiede quanto sia ancora possibile immaginare il nostro satellite come oggetto scientifico, ora che abbiamo fatto di un luogo un oggetto estetico, e che il Postmoderno ha confuso esperienza ed immaginazione. Creiamo musei sulla Luna rischiando di perdere il vero significato di ogni scoperta.
Imparare dalla Luna è un saggio tra passato, presente e futuro, che lega storia, studi scientifici e sogni. Come e quando è nata l’idea di un libro così? Quanto è stato difficile raccogliere il materiale che proponi?
Pensavo di scrivere un piccolo saggio sul lato nascosto della Luna per una rivista di architettura, riflettendo sulla formazione dell’idea di paesaggio: nessuno, guardando le prime immagini trasmesse nel 1959, aveva pensato di riconoscervi un paesaggio. Poi ho scoperto che la Nasa proponeva di proteggere i siti degli allunaggi come tesori dell’umanità. Mi è sembrato che quei luoghi vuoti, deserti, abbandonati dagli uomini per oltre 40 anni, e dove si trovano resti di vecchie tecnologie, rifiuti e qualche piccolo ricordo degli astronauti, fosse un’immagine perfetta del mondo postmoderno e la chiusura della parabola iniziata con l’avventura spaziale degli anni ‘60, costruita dalla televisione e quindi inverificabile. Lo slogan del Postmoderno era di Nietzsche: non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Ora il paradosso è che, ritrovando i fatti, i resti dell’avventura umana sulla Luna li erano subito oggetti da museo, coi quali rileggere le immagini che già possediamo o produrne di nuove. Si può spezzare questo circolo? Può essere che la Luna ci insegni come sfuggire all’autoreferenzialità dei media? In architettura il movimento postmoderno ha un punto di riferimento, un libro di Robert Venturi, Imparare da Las Vegas, pubblicato nel periodo dell’allunaggio di Apollo 17 nel 1972. Allora mi è venuto questo titolo, Imparare dalla Luna, che opponeva alla sovrabbondanza di Las Vegas il vuoto, la rarità, un grado zero dell’esperienza che permetteva di leggere ogni gesto come nuovo. Ho lavorato per quasi tre anni, cercando di battere sul tempo i cinesi di Chang’e 3: il libro è uscito un mese prima dell’allunaggio cinese. Procurarsi il materiale ormai è facile. Senza Internet, il sito della Nasa e i Moon-addicted sarebbe stato impossibile.
Ci aiuti a capire che cosa ha significato, per l’uomo degli anni ’60, sbarcare sulla Luna
Una sfida tecnologica e politica, ma anche un modo per sperimentare come la realtà, qui sulla Terra, dipendesse da un mezzo di comunicazione la cui potenza non si conosceva. Non perché l’allunaggio non ci sia stato, ma perché quelle spaziali erano notizie costruite su misura per la tv. Lo ha scritto Pasolini nel 1969: prima la tv aveva dato informazioni di cose che conoscevamo. Ora con gli astronauti aveva un contenuto che senza tv quasi non poteva esistere, e di cui nessuno aveva esperienza diretta. Davanti alla Luna diventavamo spettatori passivi, senza possibilità di critica. Lo sbarco sulla Luna ha fatto nascere il mondo come platea televisiva.
Nel tuo libro riporti una frase di Bill Anders: «Abbiamo fatto così tanta strada per arrivare sulla Luna, e la cosa più importante che abbiamo scoperto è stata la Terra». Che cosa vuol dire scoprire la Terra attraverso la Luna
Grazie ai viaggi nello spazio abbiamo visto per la prima volta la Terra da fuori. Non ci rendiamo conto di cosa abbia voluto dire allora, e di cosa voglia dire ora quello che facciamo ogni volta che clicchiamo su Google Earth. Come ha scritto Peter Sloterdijk, ogni rappresentazione della Terra ha un valore semi-metafisico, ineliminabile. Le immagini dallo spazio, le prime a colori, hanno avuto questa forza metafisica che continuiamo a sentire ogni volta che, pur conoscendole, continuiamo a non sentirle del tutto usurate. Cominciando a vagare nello spazio abbiamo avuto prova del nostro pianeta come organismo vivente e fragile, che ha bisogno di essere protetto. L’ecologia si è nutrita di quelle immagini, come ha fatto anche James Lovelock per la sua ipotesi “Gaia”.
A distanza di anni la Luna sembra tornata obiettivo dei programmi spaziali. Che cosa dobbiamo ancora scoprire mettendo piede sul nostro satellite? C’è ancora un fine scientifico o è un modo per ritrovare noi stessi in qualche modo?
Sulla Luna è ricercato l’Elio 3, prezioso per lo sviluppo delle criotecnologie. È stata confermata la presenza di ghiaccio ai poli, e quindi di acqua, esistenza di un’atmosfera ormai indebolita fino all’estinzione. Poi ci sono i progetti di installare un telescopio sulla parte nascosta della Luna per studiare lo spazio profondo. Ma ci sono di più ragioni di prestigio che coincidono con gli obiettivi del turismo spaziale. Il vero obiettivo per tutti oggi è Marte. Ma la Luna è un traguardo più abbordabile e paradossalmente più interessante proprio per la possibilità di trovarvi resti della presenza umana.
La musealizzazione del passato più recente porta a guardare ogni cosa con gli occhi del turista e a trasformarla in oggetto estetico. È un concetto che ha acceso il dibattito e che ha toccato molti altri luoghi storici, vedi Auschwitz. Quando e perché la Luna ha cominciato a diventare oggetto estetico, museo? E quanto musealizzare, estetizzare, ci allontana dal ricordare, dalla memoria?
Tra i primi oggetti portati sulla Luna dagli astronauti c’era una piccola ceramica con disegni di artisti pop. È chiamata The Moon Museum ed è il primo segnale di una musealizzazione del suolo lunare che riporta alla memoria una forma ottocentesca: i “musei sentimentali”, collezioni di ricordi personali che avevano valore per l’investimento feticistico che vi proiettava il proprietario, ma non per la qualità degli oggetti. Questa forma di musealizzazione blocca i processi della memoria, tanto più se sulla Luna si andrà a cercare quello che già si conosce: le orme fotografate, i moduli lunari, le attrezzature scientifiche. Questo è il prototipo del nostro atteggiamento turistico sulla Terra, e la natura del feticismo lunare ci fa comprendere quella del feticismo terrestre. Si tratta di abbandonare la storia che già conosciamo, quella della “conquista” e della competizione geopolitica, e assumere un punto di vista estetico che valorizza le tracce minori, casuali, marginali rispetto alle missioni, dalle quali si può forse ricavare un atteggiamento diverso non tanto verso la Luna, ma verso la Terra, dove si può più facilmente rovesciare il principio dell’estetizzazione dei comportamenti.
L’uomo è portato alla scoperta dell’ignoto, a nuovi mondi e possibilità. Andiamo ‘oltre’ la Luna, nell’Universo. Siamo pronti per guardare così lontano? Pronti alla scoperta? O mancheremo ancora una volta l’oggetto delle nostre scoperte e, con esso, la Terra?
Il timore è questo: mancare la scoperta dell’ignoto per volerlo troppo addomesticare. Günther Anders disse che la Luna era stata “delunarizzata” dagli americani. Oggi si parla di una Luna 2.0 come prolungamento del paesaggio terrestre, una colonia come tante, solo dislocata un po’ più in là. Restituire alla Luna la sua lunarità è un modo per rafforzare la nostra percezione della Terra e per riproporre all’ordine del giorno, anche da un punto di vista estetico, la questione ambientale.