Recensioni / I tre volti del populismo urbano

La parola populismo (al di là della sua discutibile attualità oggi in Italia) è una nozione che gode di un'ampia letteratura, oltre che nella storia antica, in quella moderna, almeno a partire dalle critiche di Marx a Blanqui e al populismo russo di Lavzov, a quello di Gustav Le Bon della fine del XIX secolo e a quello brasiliano di Octavio. Poi più di recente, con diverso significato, ci si può riferire ai testi di Taguieff o di Ernesto Laclau o a quelli italiani di Sergio Romano, di Flores d'Arcais e di molti altri. Tuttavia le discussioni sul suo significato sono sovente assai contraddittorie (anche la stessa idea di democrazia diretta è assai discutibile come organizzazione politica del populismo) e soprattutto sono mutevolissime negli stati successivi della storia ed in particolare in quelle delle cosiddette democrazie mature come Europa e Stati Uniti, dove le nozioni di utopia e populismo sono sempre più lontane fra loro. Capire quali siano le conseguenze delle sue successive ventate come contenuto ideologico dell?architettura è quindi il compito particolarmente arduo che ha assunto Federico Ferrari con il suo libro La seduzione populista (Quodlibet, pp. 230, e 23). Egli si è essenzialmente dedicato a discutere ciò che «populismo» significa per l'urbanistica ma molte sue riflessioni sono, nel capitolo finale, estese anche ai contenuti dei processi di progettazione dell'architettura come pratica artistica anche perché siamo ben consci che vi sono molti elementi di continuità tra di essi. Per l'architettura la spinta alla «partecipazione» data almeno dalla metà degli anni Sessanta, specie in Francia e negli Usa, trasferita poi in Italia con la collana del Saggiatore diretta da Giancarlo De Carlo e dallo stesso De Carlo proposta in alcuni suoi ben noti progetti. E qui si aprì anche una doppia interpretazione, quella della pretesa impossibile dell'espressione diretta della società nelle forme dell'architettura, che si presenta con tutti i limiti della competenza o della deduttività della forma, e quella della critica attiva della stessa società alle proposte di progetto e al loro potere di seduzione. Ferrari scrive poi il suo libro a partire dall?esperienza del decennio «dell'immaginazione al potere» del '68 e dei suoi effetti «di polverizzazione delle estetiche del moderno», a cui è seguito il dilagare dell'ideologia postmodernista descritta da Jean François Lyotard «e criticata come cultura del capitalismo finanziario globale» da Frederic Jameson e da molti altri illustri filosofi e sociologi alla fine degli anni settanta. Il libro di Ferrari muove da tre celebri esempi: Bussy St.Georges in Francia, Celebration in Florida e Poundbury in Gran Bretagna. Poi descrive tre modi di approccio alla relazione tra impianto urbano e populismo: quello dell'«agglomération nouvelle» dei francesi, quello neotradizionalista di Carlo d'Inghilterra e di Leon Krier e l?idea di mediocrità, economicamente (ed ideologicamente) fondata su quella che un tempo si sarebbe definita «la classe medio bassa e provinciale» a cui si rivolge Bob Venturi, mettendo in evidenza la dialettica tra il libro su Las Vegas e le architetture dello stesso Bob Venturi. Si tratta comunque, nei tre casi descritti, di esempi che «realizzano ambienti rassicuranti», venduti come espressione della volontà popolare rivisitata dallo «spontaneismo» che ne assicura la vendibilità. A tutto questo dovrebbe essere aggiunta l'interpretazione tutta ideologica di oggi dell'idea di ritorno alla natura, dell'ecologia estesa su ogni oggetto e del serissimo problema di difesa ambientale, ridotta nei nostri anni a mercato, nella assurda credenza di una deduzione da esse delle forme del linguaggio dell'architettura. Tutto questo nell'affondamento definitivo e fatale della «coscienza di classe», che è certamente il fondamento dell'attuale populismo come plebiscitarismo e rapporto diretto tra masse e capo carismatico apparentemente moralista, come ci hanno insegnato anche molte delle dittature populiste del XX secolo. Nell'ultimo capitolo del suo libro, per me assai convincente e che è certamente il più vicino alle difficoltà ed alle incertezze dell'architettura oggi, Ferrari descrive le relazioni complesse tra estetica e politica populista affrontando i molti casi ambigui e sovente contraddittori tra le opere di architettura negli anni Trenta in Italia, Germania (ma si potrebbero aggiungere anche Spagna, Francia e produzione nell'Unione Sovietica zdanovista) sino ad includere un poco arbitrariamente il caso del neorealismo italiano di Ridolfi, le discussioni intorno alle eredità del movimento moderno e la dialettica nei confronti dei temi della storia e del contesto. Non vi è dubbio che si potrebbe definire lo stato attuale del postmodernismo accademico come il migliore ritratto della seduzione del realismo populista dei nostri anni, in netto contrasto con le speranze della costituzione di un'architettura come forma di realismo critico in quanto fondamento di possibilità altre.