«Mi chiamo Louise Bourgeois. Sono nata il 24 dicembre del 1911 a Parigi.
Tutto il mio lavoro degli ultimi cinquant'anni, tutti i miei soggetti
hanno tratto ispirazione dalla mia infanzia. La mia infanzia non ha mai
perso la sua magia, non ha mai perso il suo mistero, non ha mai perso il
suo dramma». Estratto significativo proveniente dai diari dell'artista che così si presentava a un pubblico che avrebbe avuto occasione di
vederne la prima mostra importante solo nel 1982 al MoMA. Ed è proprio
di dramma che conviene parlare quando si osservano le opere della
Bourgeois, di dramma individuale e collettiva e della memoria che
riconduce a esso.
L'opera che proponiamo ha il grande “vantaggio” di affronta un dramma
universalmente noto; il titolo stesso non vuole - deliberatamente -
produrre il minimo fraintendimento.
Louis Bourgeois, padre dell'artista, portò a vivere nella casa di
famiglia di Choisy-le-Roy la sua amante Sadie, presentata come
l'istitutrice d'inglese dei figli. Non era tanto il tradimento paterno a
turbare Louise, quanto il fatto che in sua presenza fosse tollerata. La
faniiglia borghese diventa quindi il bersaglio di un risentimento
profondo e di una critica serrata che l'additano come un nucleo
ipocrita, fatto di rinunce e compromessi, disparità nei comportamenti
dei coniugi, omertà. Ecco perché anche la definizione del trauma non è
quella di essere stati vittima di qualcosa, quanto di essere stati
testimoni e di non riuscire a raccontarlo.
Perché quindi realizzare un'opera se non si riesce a parlare subito del
trauma? Qual è la funzione dell'opera? Nella concezione tutta personale
della Bourgeois, essa ha il compito di esorcizzare il trauma: «[...]
questo passato deve essere sradicato. Per passare efficacemente
attraverso l'esorcismo, per riuscire a liberarmi del passato, io debbo
ricostruirlo, rifletterci, farne una statua e poi sbarazzarmene con la
scultura. Dopo riesco a dimenticarlo. Ho saldato il mio debito con il
passato e me ne sono liberata».
L'arte ha il compito di far re-esperire tutto ciò che bisogna affrontare
e che è indicibile: la materia stessa diventa espressione tangibile che
di per sé non lo sono e che così come attraversano l'individuo vengono
riproposte attraverso materiali molto compatti e pesanti come il legno:
il ferru o, come in questo caso, il gesso. Ossimori permessi solo nel
fare artistico: sensazioni immateriali e soggettive derivate
dall'esperienza (ancora più soggettiva delle sensazioni prese da sole)
espresse attraverso una potente matericità, che non è possibile evitare
né guardare di sfuggita. L'indicibile diventa evidente.
La critica ha considerato l'opera anche come una tana archetipica, luogo
in cui cercare protezione e rifugio, in cui però la paura di essere
intrappolati c'è e si trasforma nel desiderio di intrappolare l'altro,
così la vittima diventa carnefice.
La tana è anche il luogo dal pasto che qui diventa un pasto rituale
proprio del padre, in una stanza che ricorda anche il corpo umano con le
sue forme aguzze e tondeggianti.
Con questa consapevolezza si riesce a capire bene di cosa parlasse la
Bourgeois quando descriveva l'opera: «Si tratta essenzialmente di una
tavola, l'orrida, terrificante cena capeggiata dal padre che si siede e
gode. E gli altri, la madre e i figli, cosa possono fare? Siedono in
silenzio. La madre cerca ovviamente di soddisfare il padre, suo marito. l
figli sono esasperati. [...] Mio padre si innervosiva alla nostra vista
e dimostrava la sua "grandezza". Per l'esasperazione afferravamo il
padre, lo sbattevamo sul tavolo, lo facevamo a pezzi e cominciavamo a
mangiarlo».