Recensioni / Un fazzoletto di Milano dal profilo europeo, prima del risanamento

Restano ancora perfette le parole di Carlo Linati a proposito delle prose di Delio Tessa, in specie quando si spiega come per mezzo di una scrittura «a tocchi, a puntini, a cassettini» avvenga che si raccolgano e intorno vi si raggrumino «polvere, odori, vecchie tinte, rimasugli e vecchiumi della già vecchia Milano». Entro quel procedere a spasmi, a strappi improvvisi, accelerando e rallentando, resta chiuso il segreto di un'andatura che aveva bisogno di regolarsi su distanze urbane, più sul tempo che sullo spazio - tempo della persistenza dell'antico e tempo della trasformazione-, a riprodurne il corto circuito, l'aritmia sentimentale e tuttavia concretissima.
Se per un momento si sottrae la mitologia di Tessa alla dimensione municipale e al localismo, bisognerà allora guardare altrove, lontano, per trovar fratelli all'«avvocatino» con l'ombrello a becco appeso al braccio (egli così si riferiva a se stesso volendo segnalare la modesta riuscita professionale), una metà Charlot e l'altra Hulot, in cerca di detriti, di pietre consumate, di dissonanti e nuovi arredi urbani, di case in demolizione o in costruzione, di giardini inselvatichiti e abbandonati, di tipi e facce e voci di portinaie, artigiani, commesse, impiegati, donne di servizio, barboni, ladruncoli, colleghi di tribunale, commercianti, becchini.
Occorrerà, ad esempio, ricordare Spazieren in Berlin (1929), giacché, e non diversamente da Franz Hessel, Tessa scontorna ciò che resta di classico  e lo fissa una volte per tutte sulla pagina, lo rimpiange e insieme ne accetta il tramonto e la deriva persino nel cuore della folla, della marea umana che nuota nella metropoli. Il destino di Tessa, come quello di Hessel e (prima ancora) di Baudelaire, è quello di abitare «nella casa del tempo, sotto la scala, là dove tutti gli debbono passare davanti, e nessuno lo nota [...] Egli è qui, e nessuno è tenuto ad occuparsi della sua presenza.
Egli è qui e silenziosamente passa di luogo in luogo ed è null'altro che occhi e orecchi e assume il colore delle cose su cui si posa», secondo la definizione che Hugo von Hofmannsthal formulò nel celebre saggio del 1907 Il poeta e il nostro tempo.
Tessa d'altra parte torna più volte a Baudelaire che intanto afferma di preferire a Leopardi proprio perché lì «si sente l'odore della folla, si sente la sua Parigi che egli amò di un amore che sembra avere le radici nell'odio». E ancora, in maniera più potente e risoluta: «Che faccio questa sera? Sono stanco di Jean Harlow e dei suoi ultimi film. Me la fanno vedere troppo bionda, troppo nuda lei che è morta. La sua giovinezza in fiore mi si decompone sotto gli occhi e ai baci che le danno sento un freddo... la fraicheur du tombeau... direbbe Baudelaire...». Oppure conficcandosi, corpo e anima, in quella tradizione del moderno, con sgomento e attrazione, con repulsione e ammirato spavento: «E le facce? E le facce della gente? Per chi come me ha lo stupido vizio di ammirar la città e di viverci dentro come una fogna non vede sassi, ma facce, facce, facce: che cosa terribile e ossessionante!». Volendo, procede, quelle facce morte che «lampeggiano» simili a «certe case segnate per la demolizione cui hanno accecato le finestre con rettangoli di muro», le si può continuare a «salutare per sempre» ovvero per l'eternità, in sequenze senza principio né fine.
Delio Tessa (1886-1939) - che in vita pubblicò nel 1932, e con straordinario insuccesso, quel capolavoro in versi dell'espressionismo europeo intitolato L`è elì dì di mort, alegher! - scrisse le sue prose destinate ai giornali (soprattutto «L'Ambrosiano», a cui collaborò negli stessi anni anche Carlo Emilio Gadda, e «Il Corriere del Ticino», oltre la Radio della Svizzera italiana) tra il 1934 e il 1939, prose che adesso ritroviamo riunite - dopo l'edizione del 1988, curata da Dante Isella per Einaudi (Ore di città) e a seguire, nel 1990 presso Casagrande, per le cure di Giuseppe Anceschi, di Critiche contro vento, centrato sulle pagine "ticinesi"di carattere più specificatamente informativo e appunto giornalistico, legate magari a un evento, a una mostra, all'uscita di un libro o di un film, a una intervista - in un unico volume, a cura di Paolo Mauri, dal titolo La bella Milano (Quodlibet, pp. 413, € 16,00). Manca da questo corpus soltanto «Brutte fotografie di un bel mondo», dove l'autore commenta una serie di vecchie immagini della propria vita di bambino e di adolescente quasi a voler chiudere il cerchio tra lettera e testamento («Sono vissuto troppo», comincia, «Me ne accorgo contemplando queste fotografie. Mi sono care, le amo, ed è un gran brutto segno. Non riesco a distaccarmi dai morti, non so vivere più»).
Pure, se il tempo è immenso, lo spazio invece si misura in un groviglio di strade e viuzze attraversate da qualche viale che fugge verso le nuove periferie. Tutto si concentra insomma quasi in un fazzoletto di terra attorno alla parrocchia di Sant'Alessandro, nei luoghi dove Tessa era nato e vissuto (via Fieno, via Olmetto, piazza Vetra, Porta Ticinese, Porta Romana; solo di rado egli si spinge verso la campagna, a Rogoredo, all'Idroscalo, alla Copmasina, e- qui prova a ricostruire la planimetria di una villa settecentesca ormai scomparsa e di cui resta in piedi solo l'ingresso, e la vita beata del «giovin signore» che l'aveva abitata; più spesso ovviamente a Musocco, la città delle ombre). Ma a Tessa quello spazio basta e anzi gli pare anch'esso immenso quanto il tempo che lo precipita indietro, lontano dal Piccone Risanatore e dal Piano Regolatore che sono rispettivamente il «boia» e la «sentenza di morte». A Tessa repelle l'artificio, l'ornamento, questo ricordandogli la cura che si ha per le salme, l'irrigidimento, l'imminente processo di decomposizione. Si dice convinto che la neve ami le cattedrali, i vecchi palazzi e le casupole piuttosto che lo stile Novecento. Ma nulla al pari di queste prose, e proprio grazie a un simile lacerante attrito, sa offrire al lettore l'attimo esatto dell'irrompere del moderno nella vita materiale e psichica degli uomini.