Recensioni / Quei silenzi di Beckett, pilastro del postmoderno che non vuole ricordare

Esce ora un libro che si immagina, anzi si ha la certezza che sia stato lungamente elaborato e ruminato, uno di quei libri che a forza di cercare la perfezione e la concisione risultano un po' enigmatici perché hanno l'implacabile geometria di un monologo.
Parlo del libro di Susanna Spero L'invenzione di una forma. Poetica dei generi nell'opera di Samuel Beckett (Quodlibet). L'autrice, oltre che una studiosa, sembra un'allieva di Beckett, una rigorosa creatura che si è consacrata al suo autore, un autore portato dall'esplorazione del nulla e del non-senso a una atonale, antisentimentale perfezione di ritmo.
La comicità di Beckett forse è proprio qui: inibisce l'emozione nel momento in cui si crede di doversi disperare. «Niente è più comico dell'infelicità»: questa battuta di Finale di partita (1957) credo che sia il più robusto architrave di tutta la sua opera. Non è forse comico e perfino euforizzante che dei moribondi, dei sopravvissuti come i suoi personaggi abbiano un così elegante senso del ritmo continuando a parlare di niente?
Vent'anni fa mi convinsi che i due pilastri della postmodernità erano stati Borges e Beckett: l'uomo della memoria culturale labirintica e senza fondo, e l'uomo della dimenticanza, dello svuotamento vitale e mentale. Beckett capì presto che dopo le eruzioni vulcaniche, le «apoteosi della parola», le verità estreme della prima modernità novecentesca (Proust, Joyce, Kafka) si apriva l'epoca della penuria, del balbettio, del silenzio che parla e dell'immobilità che gesticola.
Parole come gesti, gesti senza un chi e un perché. Beckett porta la sua narrativa che non narra verso il teatro e lascia l'inglese per il francese, lingua per lui impersonale e neutra nella quale il parlante è parlato dalla lingua e il soggetto è spossessato dalle iterazioni, dai tic di una comunicazione vana. Nasce il personaggio-voce, è stato detto. Ma la voce non identifica un personaggio, lo martirizza, lo annulla. Ridicolizza la sua coazione a dire qualcosa. Susanna Spero si muove a stretto ridosso dei testi beckettiani, pratica l'arte del commento con ascetica devozione. Ed è quello che Beckett esige.