Recensioni / Il postmoderno è una maschera

Il postmoderno richiama il tema della fine. Un ritornello antico che evoca pensieri profondi, per dirla con Omero. Limitandoci all'ultimo secolo, il Novecento si è aperto all'insegna della fine. Religione, filosofia, storia e, naturalmente, modernità. Tuttofinito. Argomenti trattati con solennità tutta teutonica, da Thomas Mann al Tramonto dell'Occidente di Spengler. Si salvò Karl Kraus, che ci rideva sopra - ma era ironico e viennese: non è poco. Poi alla fine è subentrata la risurrezione con un'ondata di “post”. Il catalogo è vasto: società post-industriale e post-capitalistica, post-fordismo e pure post-strutturalismo, ordine post-borghese, l'avvento della cultura post-letteraria e così via. C'è pure chi, preso dall'entusiasmo, ha un po' esagerato: Sidney Ahlstrom per spiegare il cambiamento della scena religiosa se ne è uscito con una trilogia di “post”: post-puritana, post-protestante, post-cristiana. Una vera sparatoria.
Ma il postmodemo ha vinto su tutti perché totalmente obliquo. Dall'architettura alla critica letteraria, dalla filosofia alla letteratura., tutti gli ambiti del sapere si sono autoproclamati (o auto esentati dal) postmoderno. Ancora oggi il termine assume una connotazione negativa. Alfonso Berardinelli (nel suo Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione) l'ha bollato così: «Quando il modemo diventa il presupposto,la legittimazione e la cornice di se stesso, siamo nel postmoderno. Un postmoderno deteriore, che invece di prendere atto del passato moderno continua a considerarlo eternamente nuovo. Allora, più che cercare davvero qualcosa di parzialmente nuovo, gli artisti di neoavanguardia cercano protezione sotto la religione del Nuovo, divenuta chiesa. Ciò che vogliono è essere accettati: non dal pubblico, ma dai professori di modernità, di cui fanno parte loro stessi a tutti gli effetti». Sarebbe facile derubricare anche l'architetto Peter Eisenman nel novero delle neoavanguardie postmoderne: del resto il primo saggio contenuto in Inside out. Scritti 1963-1988 (in uscita per Quodlibet, pagine 395, euro 28) è coevo al nostro Gruppo 63 e come loro, l'architetto americano è passato attraverso tutte le loro malattie infantili: strutturalismo, semiotica, cerebralismo e così via. Naturalmente a modo suo e nella propria disciplina.
Ma siccome, come ribadisce sempre Berardinelli, il postmoderno in Italia si è nutrito più di impressioni e di umori che di riflessione storica, varrà la pena sottolineare come uno dei più strenui oppositori del postmoderno come lo storico Manfredo Tafuri (scomparso giusto vent'anni fa) sia stato in fondo lo scopritore di Eisenman in Italia. Le cose dunque si complicano.
Tafuri, verso la fine degli anni Settanta, aveva scelto un titolo pirandelliano (forse ancor più riferito a Gianni Vattimo) per il suo saggio su Eisenman: Il soggetto e la maschera. Si trattava di un testo che doveva fungere da introduzione al libro di Eisenman su Giuseppe Terragni - l'architetto comasco legato al fascismo che, più di ogni altro, Eisenman ha studiato e contribuito a rivalutare, annunciato per il 1978 ma poi uscito soltanto nel 2004.
Riletto oggi fa riflettere sulle tante maschere che Eisenman, così come lo stesso Tafuri, ha indossato nel corso degli anni e della sua evoluzione progettuale, dalle prime case bianche e borghesi fino al Memoriale agli ebrei assassinati d'Europa di Berlino. Eisenman però non è Zelig, semmai può essere considerato “un personaggio in cerca d'autore”. Pirandello, cioè colui che nel Novecento che più si è interrogato sullo scarto tra vita e forma, scrive: «Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che son veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente». Ecco perché nel corso della nostra esistenza abbiamo ripetutamente bisogno di maschere, specie aVenezia, città d'elezione sia per Tafuri sia per Eisenman, che ha «la bellezza equivoca dell'avventura, che fluttua senza radici nella vita, come un fiore divelto sull'acqua». Venezia, secondo Simmel, è 'unica città a possedere «la bellezza mentitrice e tragica di una maschera», poiché «essa simboleggia un ordine unico delle forme sotto le quali noi concepiamo il mondo» e dove per questo la vita può essere realmente vissuta.
Lemaschere esprimonoil nostro desiderio di evoluzione ed esorcizzano la paura della morte. Ancora una volta è stato Pirandello a mettere in luce questo dissidio originato dal «tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa immutabile». Probabilmente lo scontro che verso la fine degli anni Ottanta ha portato Tafuri a tagliare definitivamente i ponti con Eisenman era motivato da un eccesso di affinità pirandelliana, da un eccesso di verità, perché come ci ha insegnato Otto Weininger, negli altri odiamo quella parte di noi che abbiamo in comune e non vogliamo più avere.
Nel 1980 si inaugura la prima Biennale di architettura a Venezia dal titolo La presenza del passato: Il direttore, Paolo Portoghesi, dichiara la “fine del proibizionismo”. Vale a dire: via alla citazione libera, in architettura, degli elementi storici più desueti come colonne, timpani e capitelli corinzi. Eisenman è forse l'unico architetto di chiara fama a non partecipare alla mostra. Tafuri gli aveva chiesto di non farlo. La Biennale s'impone come la prima grande manifestazione planetaria di un possibile, sebbene problematico, “stile postmoderno”, obbligando tutti gli architetti a confrontarsi col tema. Ma mentre Aldo Rossi risolve la questione con una battuta - «non posso essere postmoderno perché non sono mai stato moderno» - il suo amico Eisenman si pone il problema eccome. Soprattutto perché proprio lui, nato nello stesso quartiere di Newark dove sono nati e cresciuti i due scrittori postmoderni più celebri, Philip Roth e Paul Auster, sembra essere fuori sincrono con lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. E allora si mette a studiare uno degli architetti premiati col Leone alla carriera di quella Biennale, la stessa dove Charles Jencks aveva posto il tema dell'“eclettismo radicale": Philip Johnson, certamente il più grande eclettico del Novecento, primo curatore di architettura del MoMA cui ha regalato la sua vertiginosa collezione di opere d'arte. Annota dunque Eisenman nel suo saggio dedicato Johnson dal titolo Dietro la specchio: «Il termine “eclettismo" fornisce in tal modo un contesto privo di regole, poiché le regole permettono a chiunque di giocare; un po' come la fantasia di un elitario mascherata da gioco populista». E così facendo trova un'altra chiave per capire non solo Johnson o lo stesso Jencks, ma il postmoderno tutto.
In architettura però gli alfieri del postmoderno sono considerati Robert Venturi e Denise Scott Brown, la coppia di Filadelfia autrice di Imparare da Las Vegas (1972, in italiano sempre per Quodlibet e curato da Manuel Orazi), il saggio sulla dimensione simbolica della forma architettonica (applicata però per la prima volta a un luogo che secondo la cultura architettonica di allora non era né città né tantomeno architettura). Invece in unintervista a Klat Magazine, qualche tempo fa, Eisenman ha puntualizzato: «Quello di genius loci è un concetto che è stato minato dalla comunicazione digitale e dalla globalizzazione. Un libro sul genius loci come Imparare da Las Vegas oggi sarebbe impossibile perché tutto oggi è Las Vegas, tutto è un capannone decorato. Una volta si andava da Hermès a Parigi, a Faubourg Saint Honoré, ed era un posto davvero speciale. Oggi, nella sola Las Vegas, ci sono undici negozi di Hermès. Una volta si andava a Venezia, un altro posto davvero speciale. Oggi Venezia la trovi anche a Las Vegas o a Macao. Il genius loci è diventato parte del branding, della pubblicità, dei media. I sistemi di informazione oggi usano quelli che un tempo erano luoghi veri per creare dei nonluoghi. Non potrà mai più esistere un luogo “ai confini della terra”».
Forse allora il postmoderno è semplicemente una situazione storica che ha coinvolto tendenze culturali contrastanti - per Lyotard, una condizione - da cui è diflìcile divincolarsi. Come ha spietatamente notato Rem Koolhaas, il prossimo direttore della Biennale di quest'anno (la 14a) nella città generica e globale in cui viviamo «lo stile prediletto è il postmodemo, e tale restarà».