Recensioni / Un pasto caldo e un riparo torna il romanzo della crisi

Tom Kromer è stato il fantasma delle lettere americane, lo spettro del Sogno americano, il suo doppio impresentabile. In vita scrisse un solo ma capitale testo, Waiting for nothing, documento crudo e lancinante pubblicato nel 1935 e considerato dai pochi sostenitori che hanno continuato a tributargli l'attenzione dovuta un capolavoro della letteratura della Grande depressione, di quella crisi economica che in pochi anni, all'inizio dei Trenta del secolo scorso, ridusse milioni di persone sul lastrico e all'indigenza. E con la fame nera che produsse portò un colpo mortale alla mitologia fondativa di una nazione.
Ora Quodlibet rimanda in libreria quel romanzo autobiografico con il titolo che originariamente l'autore aveva pensato di dargli, Un pasto caldo e un buco per la notte (a cura di Mario Maffi, pagine 190, euro 15,00), che poi sono gli unici oggetti che muovono i passi del protagonista in giro per le strade americane.
Kromer scrisse infatti questo romanzo così come poteva, "scarabocchiando" sulla carta delle sigaretta nei vagoni dei treni, sugli opuscoli religiosi durante le interminabili code per avere una brodaglia dalle missioni caritative. Su pezzi di carta rimediati nelle prigioni, nei dormitori, sotto i ponti, sulle panchine. In tutti quei luoghi che Kromer ha frequentato per i cinque anni che ha vagabondato come uno spettro insieme a un esercito di altri disperati.
Il vagabondaggio, il richiamo della foresta, il desiderio di andare sono tutti topoi caratteristici della letteratura americana, spesso anche intrecciati alle problematiche sociali, del lavoro, dell'ingiustizia. Basti pensare a Jack London o ai grandi capolavori di Caldwell, Steinbeck o Dos Passos. Ma a differenza di questi in Kromer questa condizione non assume nessun contorno epico o libertario. Anzi. Il vagabondaggio è una prigione, una schiavitù della fame e del freddo. A differenza di Bukowski o Fante, qui non c'è nessun compiacimento per la disperazione, per la miseria che si vive. È solo un'autoconservazione istintiva che impedisce al protagonista di gettarsi dalla finestra o di tirarsi un proiettile in testa, come ha visto fare a molti compagni di strada. È solo un certo humour nero che gli dà la distanza necessaria a restare in vita. Quella di Tom è un'esistenza ridotta a una condizione animale, un presente sempre all'erta, mosso solo dai bisogni primari, la fame e il riparo, la ricerca di un boccone o di un posto dove passar la notte. Tom, come indica il titolo originale, non aspetta niente: si sta intrappolati nel presente della fame e del freddo, nella violenza che la società borghese riversa su questi corpi attraverso gli agenti dell'ordine.
Con un linguaggio incalzante, ritmo spezzato e lessico gergale, Kromer ci offre dodici situazioni di vita di strada su cui domina l'urgenza di un pasto e di un riparo. Solo un paio di volte la narrazione concede spazio all'umanità delle relazioni, ma sempre dopo che lo stomaco è stato riempito. Solo allora si può vivere un sentimento d'amicizia dividendosi con alcuni compagni di sventura una torta al cocco, seppur vecchia di qualche giorno. O provare la gioia di un incontro femminile la sera della vigilia di natale.