Nel corso della sua carriera di architetto Peter Eisenman ha inseguito
assiduamente «l'interiorità dell'architettura», ovvero i meccanismi
fisici, estetici e simbolici generativi della forma architettonica. Per
comprenderla ha fatto uso di altri saperi, in particolare la filosofia e
la linguistica, convinto che solo così il discorso architettonico
potesse superare le varie forme di pensiero con le quali dal XV secolo a
oggi l'architettura si dà all'uomo e che Eisenman racchiude nella
definizione di «classico». Contro il paradigma del classico che sottende
- dall'antichità fino al Movimento Moderno - un modo di costruire che «non ha tempo, che ha significato ed è vero»,
l'architetto americano contrappone, tramite la sua riflessione critica,
una architettura che spiazza e scuote il presente da dentro. Inside out
(Quodlibet, traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, pp. 392, €
28,00) è non a caso il titolo scelto da Eisenman per la sua ultima
raccolta di scritti, che vanno dal 1963 al 1988. Pubblicata nel 2004
(Pale University Press) la selezione dei testi dell'architetto americano
ci permette di ripercorrere le tappe della sua intensa produzione
teorica che oggi ha pochi uguali soprattutto per com'è intimamente
connessa ai suoi progetti sparsi un po' dovunque tra gli Stati Uniti e
l'Europa.
Definito il «Noam Chomsky dell'architettura» per i suoi continui
riferimenti al linguaggio, Eisenman ha rivolto il suo maggiore impegno
proprio allo spostare l'«interiorità» da un paradigma architettonico
classico a uno linguistico. Partito dalla grammatica trasformazionale di
Chomsky all'epoca delle Cardboard House, nel 1969, Eisenman
dalla metà degli anni '80 ha instaurato un fitto dialogo con Jacques
Derrida e ha con lui condiviso il progetto, su incarico di Bernard
Tschumi, per i giardini tematici del parco della Villette a Parigi.
Dall'incontro con Derrida ha derivato il «desiderio di ritornare alla
verità assoluta» che cinquecento anni di storia dell'architettura hanno
simulato fallendo.
Come ha scritto Jean Baudrillard, la realtà è simulazione e se
l'architettura intende ritrovare l'assoluto deve dis-simularla.
Dissimulare è riconoscere: leggiamo in Aspetti del Modernismo, un
saggio scritto da Eisenman nel 1980, che Colin Rowe ha oscurato la
«feconda rottura» di Le Corbusier con la tradizione riducendolo a un
«fenomeno del tardo umanesimo». Nota Eisenman che l'autentica modernità
della Maison Domino non sta, come afferma Rowe, nelle necessità
funzionali e tecniche che soddisfa, ma nella chiarezza degli elementi,
in pianta e sezione, che la compongono e che costituiscono la sua
qualità segnica. Le Corbusier ha ideato perciò «un'architettura
sull'architettura» che si deve analizzare per il suo essere un oggetto
autoreferenziale, oltre i suoi significati estrinseci.
Nel 1986, in occasione di un dibattito pubblico in cui presentava il suo progetto Roméo et Juliette
per la III Biennale di Architettura di Venezia, Eisenman chiari che
quanto aveva scritto in precedenza sulle opere di Le Corbusier era un
«travestimento» del suo pensiero. «Io scrivo fiction, non filosofia - disse divertito - e la fiction è mille volte più entusiasmante della filosofia».
Nello scritto La fine del classico, del 1984, la «finzione» ricompare per spiegare come la simulazione del significato (rappresentazione), della verità (ragione) e dell'eterno (storia)
contraddistinse l'architettura della modernità e ne perpetuò il
pensiero. È accaduto, infatti, che per legittimare il significato
dell'architettura la funzione sostituisse nell'età moderna il
richiamo nel Rinascimento all'antichità, così come la fede nella
razionalità prese il posto di quella nel divino e la scoperta della
realtà temporale successe all'ineffabilità dell'eterno.
Sulla scorta della filosofia contemporanea e del pensiero di Heidegger,
Eisenman mette in scacco questa logica suggerendo un'architettura del
«non classico». La sua è una teoria complessa, orientata verso il «grado zero dell'architettura», un «processo di
invenzione» fondato su tre ipotesi: un'architettura che non rimanda alle
origini né contempla la fine è senza oggetto e artificiale, ovvero
arbitraria e senza ragione. La grande fiction eisenmaniana «è uno
spazio atemporale nel presente senza un rapporto determinante con un
futuro ideale o con un passato idealizzato». Per essere efficace però è
necessario che l'architettura sia considerata un testo. Ad apertura del
suo scritto datato 1988, Architettura come seconda lingua, Eisenman riporta un aforisma di Nietzsche che recita: «Riuscire a leggere quello che non
è testo come testo senza interporvi un'interpretazione è la forma
suprema di esperienza interiore». Ridotta alla sua immanenza testuale
l'architettura non è più il «futile oggetto» quale è quello che
incontriamo nella dilagante «retorica claustrofobia» della produzione
corrente. Per Eisenman l'architettura deve separare il suo significato
dalla sua forma (significante), cioè conservare un significato d'uso, di
struttura o di luogo, senza simboleggiare queste condizioni nella sua
configurazione estetica.
Derrida definì l'architettura la «fortezza della metafisica della
presenza», intendendo il suo carattere immanente nella «realtà dura»
dell'economia, della politica e della cultura, secondo valori che possono esulare dalla storia, dal suo uso o dalla sua bellezza, e
Eisenman ha saputo bene farsene interprete. Non è un caso se Derrida
scrisse un saggio che attende di essere tradotto dal titolo: «Perché
Peter Eisenman scrive così buoni libri».