“La res cogitans della modernità nasconde un passato che dev’essere
ancora scoperto, un passato nel quale i rapporti fra cogitazione e
percezione, fra pensare e sentire, non erano ciò che sarebbero
diventati; un passato nel quale la sensazione, il potere primario
dell’essere tattile, deteneva le chiavi della vita di tutti gli animali,
ivi incluso quel bipede che avrebbe sollevato se stesso al di sopra
delle bestie intorno a lui” (p. 33).
Attorno a questo nucleo teoretico si muove la ricerca di Daniel Heller-Roazen sul senso interno, quel tatto interno che avrebbe permesso all’uomo di ergersi al di sopra
della sua propria bestialità. L’autore crede di poter svolgere una
ricerca fruttuosa percorrendo un cammino differente da quello utilizzato
fino a questo punto da altri studiosi: ovvero focalizzare la sua
attenzione sul tatto interno e non sulla ragione. Egli non è del parere
che, in Aristotele ad esempio, la mancanza di un adeguato vocabolario
(adatto cioè alle esigenze di noi moderni) non abbia permesso
nell’antichità di confezionare un termine filosofico sovrapponibile a
quello moderno di coscienza. Anzi, egli afferma che la “mancanza” dei
primi filosofi non sia un risultato rudimentale rispetto alla più
sofisticata elaborazione teoretica dei moderni; si tratterebbe, invece,
di qualcosa di affatto differente, qualcosa che si allontanerebbe
dall’idea moderna di coscienza e che oggi non si è più considerato con
il dovuto interesse.
Che cos’è il senso comune? È quel senso che, differentemente dagli altri
cinque, non ha un particolare ambito d’azione e reazione diretto
all’ambiente. È la possibilità di far convergere verso un punto nodale
l’azione percettiva dei sensi ed è, soprattutto, la capacità di
percepire la percezione. Ciò che muove l’autore nel suo cammino
archeologico è il gatto Murr e le sue elucubrazioni filosofiche narrate
da E.T.A. Hoffman in Considerazioni filosofiche del gatto Murr. Murr
spiega ai suoi lettori che ciò che lo fa sentire vivo, ciò che lo
consegna ad una dimensione più universale è l’esistenza e questa
esistenza è data dalla percezione di sentire di esistere. Non sono la
ragione e l’intelletto a dare forza alla sua capacità felina di
discorrere su temi filosofici, già questo basterebbe, ma è la sua
capacità di sentirsi vivo. Questo riferimento colto e letterario
permette a Heller-Roazen, insegnante di letteratura comparata a
Princeton, di aprire il discorso attorno al punto focale della sua
ricerca sulla mancanza dei filosofi antichi di un termine che oggi
potremmo tradurre con coscienza, nel senso che oggi riterremmo più
opportuno e utile. Nell’antichità la parola più in uso per definire la
capacità di sentire il mondo circostante era aisthēsis: traducibile con
sensazione, percezione. Questo termine indicava la capacità, non solo
umana è bene ricordarlo, di percepire l’ambiente circostante, di esserne
affetti. È l’Aristotele del De amina ad indicare i cinque sensi che
permettono all’uomo di muoversi nel suo ambiente e un problema
interessante lo produce il tatto: “Nella dottrina classica, l’anima
sensitiva non incontrava nulla se non per contatto, ed il dominio del
corpo tattile rimaneva ovunque vasto, e vario, quanto quello della
aisthēsis stessa. […] Dotata o meno di pensiero, consapevole o
inconsapevole, la vita dell’animale restava ai suoi occhi, prima di ogni
altra cosa, una questione di tatto” (p. 23).
La facoltà sensitiva che ci permette di coordinare i cinque sensi non ha
un suo medium definito. Essa è la percezione comune che permette di
comprendere che, ad esempio, quella cosa bianca vista dall’occhio che
stiamo bevendo è la stessa cosa che alla lingua appare grassa, tiepida e
dolciastra, ovvero un bicchiere di latte. Il tema della terminologia
tecnica dei filosofi antichi e la particolarità del senso del tatto
fanno domandare all’autore “se le attività della consapevolezza e
dell’autoconsapevolezza non fossero forme cognitive, ma piuttosto - come
sosteneva Aristotele - sensitive?” (p. 33).
La faccenda è certamente affascinante perché non relega all’umano il
privilegio dell’autoconsapevolezza. O per meglio dire, non è così netto
il divario tra umano e animale. Se l’attività dell’autoconsapevolezza è
una azione che permette di percepirsi, non si può negare che anche gli
animali la possiedano: “in ogni sensazione, semplice o complessa, acuta o
debole, l’essere animato sente – in modi troppo vari per essere
ricondotti alla forma della coscienza – di vivere. Sente, e dunque è: un
qualcosa che in ogni momento «tocca» e le cui facoltà non cessano mai
di sfiorare, per quanto leggermente, la fragile superficie del suo
essere” (p. 52).
Questo sentire interno ha, già in Aristotele, sollevato il problema
della sua sospensione durante il sonno. Se è dato per vero che sentire è
essere - con un netto anticipo rispetto al quasi equivalente ‘penso,
dunque sono’ cartesiano - cosa accade quando durante il sonno il nostro
percepire scema fino a livelli minimi? Com’è possibile che pur nel sonno
più pesante piccole sollecitazioni possano indurre il risveglio? Il
sentire durante il sonno non sarebbe cosí completamente annullato,
qualcosa rimarrebbe, nell’anima in relazione al corpo, per far si che
dal sonno si possa tornare alla veglia: “Qualcosa parla, da qualche
parte nell’anima, per dire semplicemente «che quel che […] appare è un
sogno» (enypnion to phainomenon) – sollecitando così (ma delicatamente)
l’essere animato a iniziare il risveglio” (p. 58). Con le parole di
Valéry Heller-Roazen asserisce che non è il soggetto a risvegliarsi, ma è
il risveglio che ha come risultato finale un io; un io che emerge da un
processo in cui non ha alcuna coincidenza: “un essere sensitivo
riprende i sensi fuori da sé, risvegliato, prima ancora che si possa
dire che sia sveglio” (p. 61). Altra cosa è il “riaversi”; è lo stato
“l’istante in cui io torno, dopo il sonno, lo shock o lo stordimento, a
me stesso” (p. 175). Per Heller-Roazen è come se l’io non coincidesse
con l’atto del risveglio, ma solo con l’atto, forse volontario, di
riaversi, di riappropriarsi di se stessi seguente al risveglio. In
questo spazio intermedio si potrebbe trovare una “sorta di vaga e
illimitata estensione” (p. 194) che anticipa la delimitazione tattile
dello spazio soggettivo. Questo spazio, che interessò tra gli altri
anche Merleau-Ponty, potrebbe essere la causa di alcune malattie
psichiatriche (p. 233) o la possibilità che si manifesti il cosiddetto
‘arto fantasma’ negli amputati (p. 225), proprio a causa della mancanza
di una percezione tattile del proprio spazio soggettivo o il suo ritardo
o lo spostamento della percezione in uno spazio non proprio. È
l’insufficienza della percezione della realtà propria a causare
problemi: il motto cartesiano ‘io penso, dunque sono’ non è più
sufficiente; si potrebbe continuare a pensare, in uno spazio vago e
illimitato, ma non appartenersi, non essere se stessi (cfr. 241).
Nell’ultimo capitolo intitolato Intoccabile - con un sottotitolo
spiazzante, Un epilogo, contenente ciò che forse il lettore potrebbe
aspettarsi di trovare -, Heller-Roazen torna ad Aristotele dopo aver
percorso l’intera storia della filosofia (tradizione araba compresa).
Ciò che più pone una differenza ontologica tra uomo e animale (il tatto
interno abbiamo visto essere un loro tratto comune) è il gusto, una
specie di tatto della lingua (p. 246): è il senso con cui l’uomo ha la
possibilità di primeggiare rispetto agli altri animali. Vista, udito e
olfatto sono sensi che mettono l’uomo in inferiorità rispetto agli altri
animali. Un aquila, un pipistrello e un cane lo sopravanzano senza
competizione. Per Aristotele è la possibilità tutta umana di toccare
l’intoccabile a rendere l’uomo il più intelligente tra gli animali: “Un
medium, non importa quanto sottile possa sembrare, deve separare i due
termini tattili, proprio mentre garantisce loro l’elemento nel quale
possono incontrarsi” (p. 249). In questa separazione si crea
l’intoccabilità, la distanza, del tattile e proprio in questa
separazione si può trovare quella “sorta di vaga e illimitata
estensione” che ci permette, al di là della soggettività, di incontrare
l’altro. Giorgio Agamben direbbe che in questa distanza, in questo
spazio a-soggettivo si trova “«la base ontologica» per l’intera teoria
dell’amicizia” (p. 250), probabilmente il sentimento più umano che
possediamo.