In un precedente, fortunato, fulminante libro di Morelli, Vademecum per perdersi in montagna, lo scritto s’avvia con una citazione da Yang Zhu: “Per chi sale una montagna, sublime è non salirla”. La questione della nuova opera dell’autore romano è che, al termine della sua lettura, il fiume Sangro è stato disceso per davvero, con un ritmo aspirante a un’andatura sprezzata e divagante, ma che nel complesso risulta faticosamente incespicante. L’intento di questo scritto singolare, in cui la cupa inconcludenza dell’insieme è rischiarata almeno in parte dalla nitida compiutezza di alcuni suoi componenti (l’osservazione notturna da un ponte, le riflessioni stralunate sull’apprendimento del cinese, l’incontro enigmatico con una volpe nella nebbia del mattino), viene dichiarato sin dall’esordio: “Volevo descrivere prima di tutto, magari annotare quello che mi passava per la testa guardando”. Per tutto il racconto la componente descrittiva risulta in effetti evidente, ma segnata da un’incapacità quasi dolorosa di coincidenza piena con la realtà che la scrittura insegue, e che la solitaria inquietudine manifestata dall’autore all’avvio del percorso non basta a esorcizzare: “Speravo comunque che tutto il guardare in basso mi impedisse troppi compiacimenti (…) Poi a rileggere ho capito che il pensiero era sempre rivolto agli amici che in quel momento non erano lì”. Alla luce di simili appunti, il libro pare dunque offrirsi soprattutto come diario intimo di una difficoltà, quella di tenere insieme vita e letteratura, con la seconda che programma di farsi descrittiva per sovrapporsi sinteticamente alla prima, indugiando in modalità operative che si rivelano però inadatte allo scopo. In questo senso, colpisce nella resa dell’opera la ricorrenza di giudizi personali su questioni e cose disparate, alle volte anche divertenti ma comunque sempre retti da un’attitudine critica di per sé incompatibile con l’aspirata coincidenza all’oggetto: come si fa, insomma, a giudicare un fiume? Pure, è ciò che Morelli fa di continuo nel corso degli enti ed eventi del tempo impiegato per seguire, a piedi, il fiume Sangro (“Un fiume come tanti altri, niente di speciale”, si apprende laconici al termine del viaggio) dalla sorgente fino alla sua foce. Forse, viene da considerare chiudendo il libro a fine lettura, troppa è stata la fede riposta dall’autore nelle potenzialità del linguaggio e delle sue tracce scritte: si veda, al proposito, il passaggio in cui Morelli annota che “senza il linguaggio finiremmo soffocati, tutte le cose che ci sono arriverebbero insieme e finiremmo per annegare nella pazzia (…) Con le parole invece possiamo giocarci fino in fondo la carta di gestire l’ingestibile, però partecipando fino a un certo punto, come in questa descrizione”. Al tempo stesso, è proprio nella fiducia in un linguaggio inteso come principio organizzativo, criterio per un ordine più ampio delle cose che nel suo fondo – secondo una saggezza dove finiscono per trovarsi riuniti l’invisibilità dei saggi taoisti pur tanto cari allo scrittore e l’ammutolimento finale del viaggiatore dantesco – si fa risolutamente silenzio, che risiede il fascino di questo racconto ambizioso e irrisolto, per molti versi una richiesta commovente d’amicizia ad altri spiriti vaghi, in cerca di una via che porti al compimento, come un fiume al mare.