“Ricognizioni approfondite in territori poco battuti”, racconti per
testo e immagini di viaggi personali, che mescolino l’arte alla
scoperta, la letteratura alla geografia, la ricerca dell’inquadratura
con quella del semplice indirizzo. È quanto si propone di fare Humboldt
Books, giovanissima casa editrice, nata il 14 febbraio del 2012, da
un’idea di Giovanna Silva, fotografa e photo-editor, iniziativa fresca e
raffinata, in un panorama editoriale difficile e settario come quello
italiano, così battezzata in onore di Alexander von Humboldt,
avventuroso esploratore ottocentesco. L’idea è quella di situarsi a metà
tra la praticità della guida e lo stile lirico della narrativa, una
sorta di non-fiction con variazioni, più o meno romanzate, sul tema del
viaggio.
IN VIAGGIO NEL CORNO D’AFRICA. Così è per “Narciso
nelle colonie. Un altro viaggio in Etiopia”, il primo tra i libri di
viaggio della Humboldt (in coedizione con Quodlibet), la cronaca di una
traversata nel Corno d’Africa con i testi di Vincenzo Latronico, giovane
penna italiana, e le immagini di Armin Linke, fotografo italo-tedesco.
“Ciò che racconta è accaduto davvero”, scrive Vincenzo Latronico in
apertura, “scontato di una scusabile misura di epica”. “I luoghi sono
abbastanza esotici da evitare il déjà-vu”, continua, “il tutto,
nonostante la drammaticità un po’ forzata, rispetta il carattere
essenziale del racconto di viaggio, il suo essere portatore sano di
panorami”. Una dichiarazione di poetica che si promette di evitare i
cliché, il troppo facile, lo strettamente personale e tutti i facili
trabocchetti del racconto di viaggio e che fa da preludio a una
straordinaria esperienza a ritroso nel tempo.
LE TRACCE DELLA NOSTRA LINGUA. Il viaggio comincia
durante i primi mesi del 2012, in Gibuti, sulle tracce di una
leggendaria ferrovia, fatta costruire dai colonizzatori italiani.
Passata la “Svizzera d’Africa”, Linke e Latronico si addentrano in
Etiopia, passando per Dire Dawa, un tempo centro di snodo e manutenzione
di treni, e arrivano ad Harar, “antica metropoli di temibili genti”,
città di mercati e compravendite sin dall’Ottocento, dove un certo
agente commerciale mise radici nella speranza di trovarvi una vita
borghese, ma forse il vento, la polvere depositata nei polmoni, lo
uccise, facendone un mito chiamato Arthur Rimbaud. Il viaggio abbandona
la ferrovia, utopia incompiuta del sogno coloniale italiano, per seguire
imprese cinesi alla testa di autostrade giganti, aerei privati gestiti
da una misteriosa commerciante di oppiacei, e continua, destinazione
Addis Abeba, con la storia di Hailé Selassié, la lingua italiana che fa
capolino in quella amarica, le vestigia del nostro colonialismo, di cui
nessuno parla più. “In Italia non parliamo di colonialismo”, scrive
Latronico, “perché, in fondo, non ci riteniamo dei veri colonizzatori:
sarà la convinzione, consolatoria e falsa, che sia stato in fondo poca
cosa rispetto a quello di altri paesi europei; sarà l’illusione, comoda e
falsa, che la nostra inettitudine bellica ci abbia impedito di
commettere atti poi così gravi; sarà la coda lunga dell’apparato
fascista che ha impedito elaborazioni collettive delle colpe”.
LA MAPPA INTERATTIVA. Come ogni libro di viaggio che
si rispetti, “Narciso nelle colonie” riserva in coda una serie di
appendici: un approfondimento sulla figura storica di Hailé Selassié con
un’intervista al giornalista e storico Angelo Del Boca, che lo ha
incontrato di persona, un excursus sul ruolo del negus nella musica
giamaicana, un dizionario dei lasciti italiani nella lingua amarica e un
prontuario di indirizzi. E per seguire il viaggio, su Google Maps c’è
anche una mappa interattiva, tappa dopo tappa. Alla fine, resta
un’ammissione di colpe. “Sono partito cercando una cosa, e non l’ho
trovata”, ammette Latronico, perso davanti a quel “collasso della
cronologia” che sono gli archivi del Corno d’Africa. E, tra le righe, la
consapevolezza che, inevitabilmente, pur sfuggendo al soggetto
imperante, si è finiti per parlare di se stessi, tra le polveri rosse
delle autostrade, le sagome delle gazzelle e il retrogusto piccante
delle cene etiopi. Sarà perché “siamo andati in Etiopia, da europei,
cercando un’immagine di noi”, o “come Narciso nelle colonie, convinti di
avere a che fare, in buona sostanza, con uno specchio, e di sapere già
che immagine avrebbe restituito”.