Incontro con l'architetto newyorkese del quale si inaugurerà domani una retrospettiva a Modena. Nelle sue parole un riepilogo dei lavori più importanti, guardando alla necessità di un nuovo paradigma che ci porti fuori dall'età del terrore inaugurata dalla tragica spettacolarità dell'11 settembre
L'inconfondibile doppia linea del suo autografo, che ama tracciare stringendo insieme contemporaneamente una penna nera e una rossa, basterebbe a descrivere il carattere insieme intellettuale e istrionico di Peter Eisenman, architetto newyorkese che a settantadue anni brandisce ancora il piglio critico e geniale dei suoi esordi. Da qui il personaggio spiazzante e eversivo, in grado di segnare attraverso contributi sempre decisivi la storia dell'architettura degli ultimi quarant'anni; a partire da quando, nemmeno ventottenne, approdò in Europa, nel tempio dell'accademia inglese di Cambridge, proponendo alla comunità architettonica di ripensare “le basi formali dell'architettura moderna”. Ciò che spinse Eisenman a inerpicarsi, sin dai primi anni `60, nelle complesse articolazioni della teoria architettonica è infatti la sua chiara dimensione critica. Una dimensione che genera costanti oscillazioni del pensiero architettonico, sottoposto sistematicamente alla doppia verifica della teoria e del progetto; due poli che in Eisenman non cessano di alimentare un corpus sempre più denso di scritti, di progetti e di opere realizzate. Ma quella di Eisenman non è semplicemente “inquietudine teorica”, come la definisce Rafael Moneo in un suo recente libro: è piuttosto lo strutturarsi consapevole di questa dimensione critica, lungo un percorso di formazione che lo ha portato dagli Stati Uniti all'Europa. In Italia - dove ha scoperto anche una sincera, popolare passione per il calcio - ha intrapreso uno scambio continuo con alcune tra le più importanti figure dell'architettura del dopoguerra tra cui Aldo Rossi e Manfredo Tafuri. Nei maestri del razionalismo italiano, soprattutto nel comasco Giuseppe Terragni, ha individuato invece il luogo privilegiato di una ricerca che lo ha accompagnato per tutta la carriera e che oggi prende corpo nelle pagine dell'atteso volume Giuseppe Terragni. Trasformazioni, Decomposizioni, Critiche, edito in Italia da Quodlibet. Allo stesso tempo la maturità progettuale di Eisenman si concretizza nelle sua ultime realizzazioni: il grande complesso della Città della Cultura di Santiago de Compostela, un movimento di suolo artificiale dove gli edifici sono letteralmente incisi nel terreno a formare una nuova figura insieme architettonica e topografica; e il Memorial per gli ebrei europei assassinati, recentemente inaugurato a Berlino, una griglia di stele di cemento prive di iscrizioni, che respinge ogni valenza simbolica ricordandoci - come ha osservato Giorgio Agamben - che ciò che è davvero indimenticabile non può essere affidato a nessun archivio. Da sempre in prima linea nell'animare i circoli culturali di mezzo mondo - soprattutto l'Institute for Architecture and Urban Studies di New York, il più attivo centro di elaborazione teorica negli Stati Uniti durante gli anni '70, e la sua rivista “Oppositions” - Peter Eisenman, dietro la sua figura di teorico e polemista instancabile e sofisticato, non nasconde l'interesse per una architettura priva di accenti retorici, fortemente orientata al presente, in ultima istanza concreta quanto solo l'architettura da sempre è obbligata ad essere. A Eisenman, che abbiamo incontrato a Firenze, è dedicata una mostra titolata Contropiede, che si inaugura domani con una sua conferenza all'Auditorium Monzani di Modena: sarà la prima retrospettiva italiana dei progetti e delle opere dell'architetto newyorkese.
Il legame che la unisce all'Italia non è nuovo, basterebbe pensare al suo libro su Terragni. Però oggi sembra che il suo lavoro goda, qui, di un rinnovato interesse: ha avuto una mostra al Museo di Castelvecchio a Verona, poi il Leone d'oro all'ultima Biennale di Venezia, e domani si aprirà la retrospettiva di Modena...
È vero, il mio interesse per l'Italia non è nuovo: ci sono arrivato per la prima volta nel 1961 dalla Svizzera. Approdai a Como e vidi la Casa del fascio di Terragni. Come disse Colin Rowe, che era stato il mio maestro a Cambridge, è come se in quel momento avessi avuto una rivelazione, un'epifania. Fu un reale cambiamento nella mia vita. Passammo l'estate in cerca dei numeri di Casabella e di altre riviste degli anni `20 e `30 come Quadrante, Case d'oggi, Architettura, che iniziai a collezionare perchè ero veramente affascinato dai progetti che pubblicavano. Allo stesso tempo cominciai a capire la cultura italiana parlando con i camerieri al ristorante e capendo che si poteva imparare una lingua e comprendere una cultura anche parlando di calcio. Così diventai un tifoso: ricordo che nell'estate del 1961 andai a vedere un raduno del Mantova che all'epoca militava in serie A. Mangiammo nello stesso ristorante con la squadra, andammo a vedere gli allenamenti, poi visitammo le chiese di S. Andrea e S. Sebastiano di Leon Battista Alberti, per poi arrivare a S. Benedetto Po per vedere la Basilica di Giulio Romano. Fu una incredibile combinazione di lingua, cultura, architettura... e calcio. Il Natale seguente, in Sicilia, andai a vedere Bulgarelli giocare con il Bologna contro il Palermo. Fu un'esperienza incredibile. In piedi sotto la pioggia guardavo la partita ma mi colpivano ancora di più gli spettatori nei loro impermeabili. Tornai a Como l'anno successivo per lavorare nell'archivio Terragni, che allora non esisteva ancora. L'Italia mi appassionò profondamente; ottenni una borsa di studio e l'estate seguente, da Princeton, tornai di nuovo. E maturai la convinzione che ideologia politica e architettura fossero parte di una stessa cosa...
È in questo periodo che lei venne in contatto con il gruppo dell'Istituto di Architettura di Venezia?
Si. Poi, attraverso l'Institute for Architecture and Urban Studies, che avevamo fondato a New York, entrai in contatto con Rossi e Tafuri, Dal Co, Ciucci e lo Iuav. Il gruppo dei Five Architects, di cui facevo parte, [insieme a Richard Meier, John Hejduk, Michael Graves, e Gwathmey&Siegel ndr] fu invitato da Rossi alla Triennale del 1973, e nel 1976 fummo ospiti di Gregotti alla mostra “Europa-America”, che di fatto fu la prima Biennale architettura di Venezia, anche se Portoghesi pensa che la prima sia stata la sua, nel 1980. Nel `78 passammo nuovamente tutta l'estate a Venezia, dove lavorai al mio progetto per l'area di Cannareggio: c'era una grande tensione collettiva, per noi il decennio dal 1968 al 1978 si risolse tutto nel rapporto tra Venezia e New York, portando architetti e studiosi a lavorare insieme e a imparare gli uni dagli altri. Pubblicammo a New York la prima edizione del libro di Rossi Autobiografia scientifica, poi i saggi di Tafuri sulla rivista “Oppositions”. Fu un periodo incredibile. Quella energia si è persa via via, e i vent'anni tra il 1978 e il 1996-97 hanno visto il declino sia dell'Italia che degli Stati Uniti. Ma oggi c'è un momento di rinascita in Italia, un rinnovato interesse da parte degli architetti e dei critici più giovani, che vengono nel mio studio a vedere il nostro lavoro e a discutere alcune delle questioni sollevate da Tafuri sull'architettura, non ancora affrontate appropriatamente.
Il libro su Terragni, che lei definisce il lavoro di due architetti, propone una serie di letture critiche di due opere emblematiche dell'architetto comasco: la Casa del fascio e la Casa Giuliani-Frigerio. Nell'introduzione lei afferma che avrebbe voluto pubblicare il risultato di questa “quarantennale odissea” prima in italiano, così come Aldo Rossi volle pubblicare la sua autobiografia scientifica prima in inglese. Potrebbe dire anche lei che questo libro rappresenta la sua autobiografia scientifica?
È una buona domanda, ma non direi che il libro su Terragni sia la mia autobiografia scientifica: lo sarà, invece, il volume al quale sto lavorando e che avrà come titolo Eisenmanual. Il fatto è che diversamente da Aldo Rossi e Robert Venturi, o Rem Koolhaas, io non ho mai pubblicato il mio libro, bensì articoli volumi su altri architetti: oltre a Terragni ho scritto su James Stirling, Peter Smithson, John Hejduk, Aldo Rossi, ma anche Le Corbusier, Mies van der Rohe e altri. Dunque, ho fatto mia la tradizione europea di presentarsi attraverso l'opera di altri autori, come hanno fatto Heidegger con Kant, o Derrida che ha utilizzato Husserl, o Deleuze con Foucault. Ma così facendo, diversamente da molti altri architetti che hanno scritto il loro manifesto, io non l'ho mai pubblicato. Il mio primo libro è stato la mia tesi di dottorato, The formal basis of modern architecture, che ho scritto nel 1963, prima del libro di Aldo Rossi, di quello di Venturi e di quello di Koolhaas. È estremamente primitivo, lo scrissi in una sorta di vuoto, per questo non è stato mai pubblicato. Oggi io sono uno dei pochi architetti critici radicali che non hanno un suo proprio libro, così si può dire che lo sia diventato, per il momento, il libro su Terragni.
Pur essendo stato concepito in un clima culturale molto diverso, l'orientamento essenzialmente critico e decontestualizzante di questo libro sembra indirettamente anche una risposta al pragmatismo che ha dominato la teoria e la pratica dell'architettura in questi ultimi anni. È d'accordo?
Quello che trovo interessante è che in qualche modo questo è un libro fuori dal suo tempo. Se fosse uscito quando è stato scritto sarebbe stato di estremo successo, ora è una sorta di tesi vuota contro il pragmatismo. In altre parole non segue la moda e si pone come un commento critico dell'oggi, cosa che non era ovviamente nelle mie intenzioni al tempo in cui l'ho pensato. Per questo è difficile giudicarlo. Direi che fra cinquant'anni sarà possibile comprenderlo meglio, perché verrà apprezzato non in contrapposizione alla situazione odierna, ma nella sua rilevanza storica, rispetto a una certa epoca.
Anche il progetto per il memorial di Berlino si confronta con un lungo periodo storico, attraverso il difficile tema della memoria.
Il progetto del memorial è senz'altro unico, anche se il tema della memoria ricorre nella maggior parte dei miei progetti. Penso di essere ancora legato all'idea proustiana di Swann che cammina verso Guermantes, sente i suoi passi sul selciato e si ricorda del tempo in cui percorreva le calli di Venezia. Qui il momento della memoria si imprime come una cosa viva e non come nostalgia. Quando alla fine cammina ancora in direzione opposta, capisce che l'unica differenza sta nel tempo e non nel luogo. Anche per me la memoria ha a che fare con questo dialogo tra tempo e luogo, e pensando a Proust, che per me è di centrale importanza, sono convinto che l'architettura può in qualche modo confrontarsi con questo tema in un modo interessante e problematico, persino più della letteratura. Memoria, tempo e luogo si fondono, allora, nel momento del presente che contiene anche il passato e il futuro di altri luoghi.
Il progetto è dunque dominato dal tema dell'esperienza dello spazio?
Si. L'idea con cui il progetto si confronta è quella di affezione. In altre parole, non mi interessa avere un bel legno o una bella pietra, ma lavorare con un materiale che nella sua non materialità sia estremamente affettivo: che produca cioè un certo straniamento per il modo in cui gli spazi sono configurati. E questo riguarda soprattutto il suolo, poiché l'architettura si confronta sempre con il luogo in cui stiamo in piedi e camminiamo, ma anche con la copertura che ci garantisce protezione. E questi sono temi dell'architettura e non della scultura o della pittura. Infatti, anche se la pittura offre all'architettura le convenzioni del disegno, come la pianta di un edificio, la vera architettura è non-metafisica, al di fuori delle convenzioni della rappresentazione. L'architettura è suolo e copertura, e a Berlino il suolo e la copertura si muovono in due modi differenti così che il visitatore perde continuamente il riferimento alla linea dell'orizzonte, sino a provare una sensazione di malessere simile al mal di mare. Ed è proprio questa esperienza a ricordare che ciò con cui l'architettura si confronta non è fatto solo di spazio, tempo e luogo.
Un effetto simile lo ha cercato anche nel progetto per la Città della Cultura a Santiago di Compostela?
Senz'altro. Vede, quello che io cerco di fare è di disfarmi dell'idea di sfondo e di oggetto. Qual è lo sfondo? Lo sfondo è il suolo. Ma una volta che ci si disfa della duplicità tra oggetto e sfondo, si ottiene il suolo come oggetto. E questo avviene sia a Santiago che a Berlino; in realtà questi sono da sempre i temi del mio lavoro, tutto è cominciato con il progetto per Cannareggio del 1968.
Nelle sue ultime interviste lei hai parlato spesso della necessità di un “nuovo paradigma” da opporre all'architettura-spettacolo in voga ormai da anni; un paradigma che ci porti fuori da quella che chiama “l'età del terrore”, dopo il tragico spettacolo dell'11 settembre.
In verità se sapessi cos'è lo articolerei meglio. Ognuno di noi a un certo momento della sua vita propone una sua tesi e la mia l'ho proposta nel 1963 con The formal basis of modern architecture. In un certo senso il mio lavoro è tutto un'elaborazione di quel momento. Non penso che si possano avere più di una o due idee importanti nella vita. Credo che il mio lavoro teorico più significativo sia già alle mie spalle, anche se sto costruendo ora la mia opera di maggior rilievo, il libro The architecture of the disaster, che affronta i problemi odierni dopo il modernismo, dopo l'11 settembre, dopo Auschwitz, dopo l'idea della società dello spettacolo di Guy Debord. Vede, io penso che l'11 settembre abbia rappresentato l'apoteosi dello spettacolo. È stato un evento mediatico: nessun film, nessun libro, nessuna architettura avrebbe mai potuto raggiungere tale spettacolarità. L'architettura non può competere con uno spettacolo del genere, se non impazzendo, sino a perdere completamente di significato. Per questo è necessario ripensare il suo ruolo alla fine dell'era dello spettacolo: già Frank Gehry, Zaha Hadid e molti altri la rappresentano bene. Ma non riesco a immaginare cosa verrà dopo. Vedo semplicemente quello che Neil Hertz chiama “la fine della linea”. Il mio The architecture of the disaster è appunto una strategia per il finale di partita del modernismo. Ma non è un nuovo paradigma: individuarlo sarà il compito degli architetti delle nuove generazioni.
Una retrospettiva
Domani alle ore 18.00 all'Auditorium Monzani di Modena, Peter Eisenman aprirà con una conferenza sul suo lavoro la mostra Contropiede, prima retrospettiva in Italia dei suoi progetti e delle sue opere (sino al 17 luglio). Seguendo la riflessione avviata con la recente mostra al Mak di Vienna e proseguita con l'incontro di Firenze, a Palazzo Vecchio, organizzato da Pino Brugellis e Manuel Orazi per l'Osservatorio sull'Architettura / Fondazione Targetti lo scorso maggio, Contropiede - titolo che evoca la grande passione di Eisenman per il calcio - affronta i presupposti teorici e i criteri metodologici dell'architetto newyorkese attraverso una sofisticata e importante riflessione sul rapporto tra il progetto e il diagramma. Proprio il diagramma è, secondo Eisenman, il “dispositivo di mediazione tra il fatto architettonico e quello che noi vediamo; cioè un altro modo di vedere che ci consente di apprezzare l'architettura al di là della pura dimensione ottica e rappresentativa”. Nel catalogo edito da Skira, i progetti sono incrociati criticamente con saggi di Silvio Cassarà, Anthony Vidler, Pier Vittorio Aureli, Gabriele Mastrigli, e dello stesso Eisenman, seguendo il lungo percorso di ricerca che dalla tesi di dottorato The formal basis of modern architecture, discussa nel 1963 all'Università di Cambridge, passa per i lavori teorici su Palladio, Piranesi e soprattutto Terragni sul quale recentemente Eisenman ha pubblicato in italiano per Quodlibet, il volume Trasformazioni, Decomposizioni, Critiche, che include testi di Manfredo Tafuri e dello stesso Terragni. Dalle prime ville sperimentali degli anni Settanta, ai progetti urbani, e ai complessi museali immediatamente successivi, il tracciato progettuale di Eisenman viene seguito sino ai lavori appena ultimati come il Memorial per gli ebrei europei assassinati di Berlino e il grande Centro Culturale di Santiago de Campostela.